Assassini col terrore d’esser morti

Ha un senso il rancore degli assassini verso le vittime: sono più vive di loro. Nell’anniversario del rapimento di Aldo Moro, del suo omicidio, del massacro della scorta, nel tuono lungo delle celebrazioni, si alzano voci spietate di ombre, accarezzate talora da compiacimenti intellettuali.  “Fare la vittima è diventato un mestiere”, dice Barbara Balzerani, incapace di capire che senza quei morti lei non esisterebbe.

Qui non si contesta la nuova vita dei terroristi e nemmeno il fatto che scrivano, raccontino, spieghino. Censurare interviste sarebbe negarci una possibilità di scoprire il vuoto, il mistero e prevenire orrori. Si vuole soltanto riflettere sul modo

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Cane adorato, muori con me

“Quando sarò prossimo alla morte, fai un’iniezione al mio cane, perché non rimanga a soffrire sulla mia tomba”. Nelle disposizioni lasciate dall’ottantaduenne Alain Delon al veterinario bruciano pietà ed egoismo, solitudine e paura.

Da tempo discutiamo con dolore, cinismo, amore del fine vita delle persone, cercando regole e limiti, sempre dibattendo della volontà espressa da chi, in condizioni intollerabili, chiede d’andarsene. Quando invece, come per il cane, siamo noi a decidere, la parola eutanasia porta in sé qualcosa di scontato, un cupo automatismo che trascura una domanda: siamo certi, giacché lui non si esprime, di aver sfogliato con dedizione

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