Nel giugno 2008 La Stampa mi inviò a Lampedusa, dove con la Guardia di Finanza andai incontro ai clandestini e rimasi con loro quando, recuperati, furono soccorsi dal medici sul molo. Ascoltai storie atroci, che ripropongo in memoria delle vittime del naufragio di nove anni fa.
<Vachina giura». «Giuro Amina». «Giura che porterai il bambino». «Te lo giuro». E Amina sale sul gommone che dalla Libia la offrirà a Lampedusa, senza il piccolo. E qui, su una motovedetta, appena dissetata, ai finanzieri già parla di lui: «È la mia vita». Sul molo, sdraiata sulla barella, racconta ancora l’amore totale per quella creatura nata dopo stupri e altri stupri di mercanti di carne e divertita soldataglia libica. Eccoli i cosiddetti «sbarchi» che tanto indignano, eccoli visti dalla parte delle donne.
Amina parte dalla Nigeria, ha 26 anni. Quattro stracci in una borsa. La portano al confine con il Niger, a Birnin Konni. E lì se la cava mollando qualche soldo che aveva nascosto bene. Forse hanno fretta di farli passare. Ma i blocchi sono tanti. Non ricorda posti, non ricorda giorni. È una confusione che non fa capire se davvero sono passati per Burkina Faso, Mali, di nuovo Niger, se hanno sbagliato strada, se li ha soltanto sentiti nominare.
I blocchi continuano a essere tanti. Per fortuna degli animi sensibili non sa nemmeno raccontare dettagli, si limita a dire in inglese, con lo sguardo adesso rassegnato: «Loro fare». Ma fare che cosa lo mima bene con un mano, un dito proteso verso parti del proprio corpo. «Loro fare». E «fanno» di tappa in tappa, guidatori di carovana e sbirraglia. Sembra che la prediligano. Il convoglio si smarrisce e allora si rosicchia deserto a piedi. Pure lì «fanno». E non sono mai i compagni di viaggio, devastati dalla sete e retti solo dalla speranza. Non se ne rende conto, ma al confine con la Libia, dopo un viaggio che in aereo sarebbe una manciata di ore, sono passati otto mesi. Di sete, di fame, di violenze.
Al confine paga un doppio dazio. Quello dei soldi è il primo, e riesce anche quando la spogliano del tutto – il che per i loro giochi non sempre è necessario o non sempre li diverte di più – a salvare dollari, cuciti con genialità dentro un tessuto che non ha fodera, non ha scomparti. Il secondo dazio è quello del corpo.
Loro «fanno». «Fanno» risalendo il Paese verso la costa. E lei sta sempre peggio. Ormai quel passaporto da esibire già lo conosce a ogni blocco. E loro riconoscono dal ventre che gonfia quanto l’abbia pagato. Quando arriva, quando finalmente Al Zuwara appare mare per l’Italia, la mettono in una sorta di campo con altre. Si servono di lei anche se ha una pancia che grida al parto, grida che qualcuno all’inizio del viaggio ha lasciato il segno. E mentre aspetta di salire su un gommone con il suo peso, partorisce, lì, aiutata da donne, davanti a uniformi dilatate dal gran ridere.
E aspetta ancora, non si parte. Con quel bambino nato di sette mesi che sembra morente. È ora di imbarcarsi e le dicono: tu sì e lui no. Ha pagato il viaggio per una persona, non per due, il bambino resta lì. Il figlio dello stupro non ha contanti. E lei, Amina, invece di disfarsi di quella firma, riversa sul bambino tutto l’amore, il futuro, il domani. E lo vuole portare con sé: è tanto minuscolo che sarebbe come se sul gommone non ci fosse, dice. Morirà sulla spiaggia, morirà sul gommone, ma almeno aggrappato con gli occhi chiusi alla mamma.
Chiede di pagare ma ridono. Allora, la notte, lo affida a un’altra donna e scuce dallo scrigno di tessuto quel denaro, glielo dà per il viaggio del nuovo passeggero: «Portalo, giurami che mi porti il mio bambino». «Te lo giuro». «Lo aspetto a Lampedusa». «Veniamo insieme».
Quando è sulla motovedetta, quando è sul molo, l’ascolta un luogotenente della Guardia di Finanza. Lui non la prende per vaneggiante e s’impegna a controllare tutti i neonati che dovessero sbarcare in braccio a una donna della quale Amina sa dire soltanto il nome di battesimo. Mentre l’accompagna al Centro di accoglienza, non ci crede nemmeno lui che il bimbo possa arrivare, però ci spera.
Un altro bambino, più grandicello, la sua unità – «Squalo» – l’ha soccorso appena la vedetta ha accostato il barcone. Piangeva e la madre indicava il braccio del piccolo, penzolante e storto. L’hanno subito visitato Croce Rossa militare e Medecins sans Frontières. Braccio spezzato. E scivola fuori la storia di loro due in un capannone aspettando, per tre mesi, quei giorni di sole e di buio nel mare. L’hanno violentata <soltanto> quattro volte, i guardiani, una grande fortuna. Mentre altre donne tenevano il piccolo con il viso rivolto verso di loro, perchè non vedesse lo scempio. Poi gli aguzzini chiedevano se aveva altri soldi, dove li nascondeva. Non li aveva. Le dicevano: «Vuoi bene al bambino? Tira fuori i soldi». Alla fine hanno rinunciato.
È venuto il momento di partire, stavano già imbarcandosi e allora «un soldato mi ha chiamata indietro con un sorriso, ha fatto andare vicino a lui mio figlio, gli ha fatto una carezza sulla testa, mi ha sorriso. Poi con le due mani gli ha preso il braccio, l’ha girato e tirato verso il ginocchio. Il piccolo gridava. Gli ha dato una spinta dicendo: buon viaggio, miserabili».
Buon viaggio anche per Shima, dodicenne rattrappita e senza coscienza. L’ha trovata la Finanza dopo aver accompagnato al molo un barcone. Erano già tutti a terra, ma si fa sempre un’ispezione che non si fa nemmeno in casa di un mafioso, in ogni vano possibile. E lei – il fratello morto nel deserto – era in una specie di scatola di legno, uno sportello lungo la scala che scende alla stiva, rannicchiata a faccia in giù, unico modo di stare là dentro, per 4 giorni di navigazione. Shima li ha visti. Uomini. E ha cominciato a gridare. È arrivata una donna finanziere, hanno fatta uscire la bambina, le hanno dato da bere, l’hanno portata al poliambulatorio. E poi al Centro. Amina, non è ancora il tuo bambino, ma pensa a lei, per adesso, tu che sai volere bene nell’orrore.
(La Stampa, 30/6/2008)