Il dolore degli altri, quando non è fastidioso ingombro o lampo di paura, è uno spettacolo, il piatto forte di trasmissioni tv e social.
Pochi giorni fa affondavo i passi nei pensieri miei lungo le vetrate dell’Istituto per la Ricerca e la Cura del Cancro di Candiolo. Appena svoltato verso l’ingresso mi sono imbattuto in un capannello di persone, ma non è stato quello a bloccarmi, è stato un singhiozzare forte, continuo, disperato, il pianto di una donna aggrappata con le braccia al collo di un’altra figura che l’accarezzava. Non sapevo quale sofferenza stesse gridando: una diagnosi senza vie di fuga, per sé o per una persona cara, oppure una morte appena fuggita con la sua preda.
Che altro puoi fare se non passare oltre? In fondo lo sgomento è sempre in agguato in un luogo che è insieme dolore e speranza, talora addio. Ma non ce l’ho fatta, finché non sono riuscito a incrociare lo sguardo, come per dire: “Non ci conosciamo, ma un po’ del tuo pianto viene via con me”. Scriveva Michail Sholokov in Il placido Don: “Non si raccoglie più la lacrima caduta”. E provare invece a raccoglierne una, almeno a chinarci e guardarci dentro come quando ci si specchia nell’acqua immobile di un lago?
In quella goccia di dolore degli altri c’è un mondo dimenticato, un’Atlantide dei sentimenti: la compassione, il patire insieme e trasmettere condivisione. In quella goccia si appanna, si sfrangia, scompare vergognoso il mondo di tabelle e numeri, voyeurismo macabro, narcisismo, freddezza, egoismo nel quale sguazziamo. Pensiamo al Covid e alle sue vittime: sugli schermi tv il conteggio dei morti ha la stessa grafica, lo stesso sfondo dell’andamento della borsa: “contagi +7%” come “Francoforte +1,5”, “decessi -8%” come “Milano -3%”. Dentro quella lacrima i numeri si dissolvono, ci fissano vite spente e famiglie travolte.
Digeriamo omicidi, risse, pestaggi come fossero il ritmo scandito da batteria e basso in un complesso rock, con i cronisti che, per evitare la monotonia e rafforzare l’effetto, aggiungono parole: un proiettile alla nuca è “una vera e propria esecuzione” (chissà che differenza c’è da un’esecuzione normale), un massacro a bastonate è “violento e senza pietà” (chissà come si fa ad ammazzare di botte con dolcezza). Noi passeggiamo tra quel sangue, discutiamo e litighiamo su modalità, cause, riprese con i telefonini, risvolti e cavalcate politiche, e sentenziamo: Tutti cattivi, come il titolo di un romanzo di Vincenzo Cerami (l’autore del Borghese piccolo piccolo), quasi noi fossimo eroi senza paura, per fortuna dell’assassino non transitati di là con il nostro coraggio e i nostri superpoteri.
Chi ha attraversato senza cinismo ogni ponte della cronaca è un collezionista di lacrime e ha imparato che esse continuano a vivere e a raccontare anche quando sono cadute su un tessuto o su un marciapiede. Con pudore e vergogna le raccoglie all’ingresso di un ospedale, su una panchina di parco, in una periferia di città e indaga scoprendo che ognuna parla di sé e anche del nostro sguardo frettoloso o da spettatori di film. E riconosce il degrado di quell’altro mondo affollato eppure solitario, quello degli spalti, degli spettatori assiepati alle finestre con i telefonini o davanti alla tastiera con una bisaccia carica d’odio sul tavolo. Sbircia ancora la lacrima e, impotente di fronte a un pianto che non può lenire, provando affetto per una sconosciuta che sparge il suo dolore, si china a raccogliere un’altra lacrima e, come un venditore di accendini al semaforo, la porge ai passanti.