“Tempesta prolungata” avrebbe segnalato, se fosse esistito, il meteo criminale di fine Anni ’80 e inizio ’90 a Taranto. In una città che cresceva orgogliosa e sventurata quale tempio della siderurgia, fiera di diventare il polo industriale del Sud, le ambizioni di potere del malaffare scatenarono una faida che lasciò a terra più di 160 cadaveri.
Su un fronte Antonio Modeo, detto il Messicano per una giovanile comparsata in un western di Sergio Leone, sull’altro i suoi fratelli, stretti nei limiti posti da regole se non etiche almeno di opportunità. Fra strette di mano con Raffaele Cutolo, legami con la ‘ndrangheta, alleanze fra clan, approcci con burattinai di Stato, patti con la politica locale, la guerra per il dominio divenne mattanza e colonna sonora della città.
Questa morte vagante per Taranto (e non solo) come un virus – più appariscente di quella che si apprestava ad insediarsi nei polmoni dei cittadini – scivola, grida, sussurra, perfino ride in un possente romanzo, Scamunéra (Minerva edizioni), di Lorenzo Sani, già inviato del Quotidiano Nazionale, autore del noir Sempre più sangue Larry e di un prezioso volume su glorie e silenzi del basket, Vale ancora tutto (Premio Coni per la narrativa 2018).
Un libro dove una lunga e tragica realtà (ben inquadrata nella prefazione di Stefano Maria Bianchi) diventa materiale di un’opera fantastica. letteraria, la cui perfezione richiama alla memoria un avvertimento che proprio negli Anni ’80 mi lanciò Giovanni Arpino: “Non c’è niente di più rischioso che fare il giornalista e scrivere romanzi. Ognuno dei due mestieri fa di tutto per inquinare l’altro”. Sani è sfuggito con disinvoltura a quel rischio: con rispetto e rigore, il giornalista ha selezionato, ordinato, studiato il materiale, le ricadute sulla società, poi l’ha passato allo scrittore e questo ha fatto fluire cinquecento gradevoli pagine di storia violenta, coraggiosa o dignitosa o meschina, di piccola quotidianità, di singola umanità, di sfarzo e debolezza, di grandi mire e ignoranti cecità, di incosciente arroganza e cedimento alla paura.
Giò Miranda, il Messicano, è protagonista accorto, capace di leggere le varie personalità di amici e nemici, di potenziali alleati e subdoli traditori. I suoi fratelli sono irruenza, ambizione frettolosa, ingorda, compiaciuta nell’orrore. Lo scontro prende il via dal quesito droga: entrare o no nel nuovo mercato? La guerra è servita. Ammazzamenti d’ogni sorta, inseguimenti in auto sparando alla diavola in mezzo alla folla del mercato, fughe dalla città e nascondigli, alleanze, armi sempre più potenti che vanno e vengono.
Sani narra la tempesta di sangue ma non si lascia sopraffare da essa, come farebbe il meticoloso cronista. Scamunéra (in dialetto un gruppo di persone scomposte e rumorose) è sì romanzo di proiettili, odio e vendetta, ma anche di famiglia (moglie, figlio, spiaggia), di politica (il parlamentare incontra il boss in un confessionale) e di disprezzo per essa anche da parte di chi ci fa affari: <Almeno i criminali offrono un servizio di protezione, gli altri prendono e basta”, dice un boss. La stessa logica di autoassoluzione che a un gran capo, la cui distilleria inquina mare e ammorba l’aria di mezza Trani, fa domandare: “E’ colpa mia se gira il vento?”
L’intreccio tra passato e futuro di Taranto è già annunciato nella splendida copertina di Giuseppe Palumbo (tra altre opere, disegnatore di Diabolik), dove sul fondo rosso sangue le ciminiere paiono colonne di città distrutte e i banditi zombi in guerra senza più un perché.
Nella tempesta parrebbe una pagina immacolata la visita del Papa alla città, non fosse che si tenta perfino di rubare l’impianto acustico del suo palco. Non c’è orrore trattato con ironia, sono i fatti stessi a generare e stuzzicare l’ironia elegante dell’autore. E il lettore, che sia di Taranto, di Torino, di Milano, ritrova pagine di casa sua (dai Modeo alla guerra piemontese tra catanesi e ‘ndrangheta e all’ascesa lombarda di Angelo Epaminonda). Ritrova il racconto dell’Italia criminale che aveva sorseggiato a rate su giornali e tv.