Morti di Stresa, perdonateci. Non è stato malanimo il nostro, ma un miscuglio nauseante di fretta, individualismo, cecità di comodo. Egoismo. Ora, come è istintivo e giusto, piangiamo la vostra morte quasi sacrificale, puntiamo dita arroventate contro tre arrestati e malediciamo la scellerata legge – il profitto – che in un attimo vi ha consumati come carburante. Ma noi già sapevamo che sareste stati divorati.
Perdonateci, morti di Stresa. Siamo complici fantasma di chi ha eliminato il freno della vostra salvezza, perché – pur spargendo di quando in quando lutto e dolore, ira e odio – ci siamo abituati al rituale per cui al dio profitto si offrono vittime. In tanti ci hanno avvertito. L’hanno fatto i caduti dell’Etermit e quelli della Thyssen così come singole salme ai piedi di un cantiere, nell’angolo di un’officina, nel buio di una galleria, sul margine di un’autostrada accanto a un camion carico di bitume. L’hanno fatto i corpi in volo dal ponte Morandi e prima di loro quelli sommersi dal fango del Vajont. L’ha fatto la magistratura e quando il procuratore Guariniello faceva il suo lavoro per scongiurare morti noi lo chiamavamo Torquemada.
Non loro soltanto. Ogni giorno una piccola voce, prima di spegnersi, chiamava timida o disperata: la vittima di un killer, il ragazzo spirato ai bordi d’un campetto perché non c’era il defibrillatore, il commerciante dallo sguardo triste e dal passo lento (“perché, amico, cammini così vicino ai binari?”) che piange il negozio perduto, la prostituta sgozzata in un boschetto fuori città, “Attenti”, soffiavano, “questa balorda legge del profitto può travolgere anche voi”. Era vero. Il dio di quella legge non cerca, non insegue: aspetta e accoglie chi arriva, colpisce a caso. Chiunque di noi poteva dire: “Saliamo al Mottarone”. Quel giorno l’avete detto voi. Perdonateci, morti di Stresa, se una parte di sofferenza è figlia del pensiero che potevamo essere al vostro posto. Siamo fragili, piangiamo meglio e di più quando scatta l’identificazione.
Chi non è giovane atleta rimasto senza un defibrillatore perché i soldi se li è mangiati qualcuno, chi non è prostituta e non deve obbedire a un racket, chi non ha un’attività passata in modo quasi impalpabile nelle mani degli usurai, chi non si è tolto la vita perché un mafioso gli ha soffiato l’appalto della speranza di ripresa era disattento quando nell’aria volava quel flebile avviso: “Attenti, per carità, moriamo per altrui profitto!”.
Perdonateci, morti di Stresa. Perché invece di ascoltare minuscoli lamenti guardavamo quel negoziante come un evasore, il ragazzetto come un delinquentello che non rispettava il lockdown, la prostituta come una lurida straniera col dovere di farci sospirare e con quello di sparire subito dopo per non “degradare” le strade e non far sapere che esistono clienti. E mafie, grande evasione, assenza di sistemi di sicurezza, strade costruite con il pongo con cui giocavamo da bambini, corruzione a ogni livello, una politica fatta di slogan, consensi, interessi, potere, quasi mai senso dello Stato e della Giustizia, tutto questo per noi era ed è soltanto un fenomeno sociale, anche se i morti ci avvertivano: non è un fenomeno sociale, è la smisurata foresta del “profitto val più della vita”.
Adesso qualcuno ha infilato una forchetta dentro un freno d’emergenza, Mai nome poteva essere più calzante: eravate – e tutti siamo – cibo da profitto. Forse non potrete perdonare chi vi ha lasciati scivolare lungo un cavo nel buio. Provate a non abbandonare noi al nostro talento innato a dimenticare e provate a perdonarci perché, pur di non vedere quei tanti volti e non sentirne il monito, abbiamo fatto a pezzi gli specchi che riflettevano la nostra società