I ragazzi del rap si sfidano a Parigi e dintorni, ma è una sfida di ritmo e di parole che raccontano e graffiano la società e le sue gabbie. Qualcuno invece sfida loro a tradimento, con il divampare di risse improvvise prima, poi con una lama che vaga scegliendo vittime tra gli artisti.
Si entra curiosi per il giallo e per il mondo che esso colora in Rapkoka (Giraldi editore) di Gianluigi Schiavon (vicedirettore del Resto del Carlino, autore di romanzi, racconti, poesie). Se si ha poca dimestichezza si entra – fra quei giovani, non nel libro – anche un po’ diffidenti: saranno balordi? cantanti senza vero talento? perdigiorno? E si comincia a vivere dalla loro parte, ora minacciata.
Dopo le risse con gli accoltellamenti – sempre lo stesso paciere, sempre lo stesso feritore – la scena si fa più lugubre. In un prato al margine della pista dell’aeroporto De Gaulle un killer ha squarciato il petto a Wing, inoffensivo ragazzo che adorava il volo ma ne aveva terrore e per questo si sdraiava a guardare i decolli. Lui era un sognatore limpido, pieno di champagne e codeina era invece Daniel 17 anni, ammazzato allo stesso modo. In un campo profughi di Calais cade un terzo amante del rap e altri due saranno uccisi in un balordo itinerario europeo..
Il commissario di polizia Lucien Bertot, una sessantina d’anni, fiuto da sbirro e cuore da uomo, ufficio in quel Quais des Orfèvres dove si respira l’ombra di Maigret mescolata alle tensioni di oggi, segue il caso con un anomalo compagno di lavoro, senza esperienza investigativa, ma con tanta padronanza dell’ambiente: il figlio diciassettenne Antoine, rapper lui stesso, capace di sintonia con un padre che ascolta Tchaikovsky. Affiatati, tenaci, ciascuno a suo modo estraneo alla routine e poco incline all’obbedienza, seguono le tracce del killer da Parigi a Calais, da Londra a Oslo, indirizzati dagli enigmatici suggerimenti di un detenuto che dal carcere di Marsiglia pare rispondere agli appelli più per amicizia che per interesse di confidente.
In certe crudeli pieghe dell’indagine, il legame affettivo infiamma la tensione del giallo. Se l’indagine trascina, gli ambienti ci ospitano in un viaggio nel cuore delle visioni giovanili, dell’amore per la musica, delle divisioni sociali, degli angoli di immigrazione, di spaccio, di prostituzione, inteneriti dalla ragazza albanese atterrita dai cacciaviti insanguinati che una mano pianta negli alberi che contornano il suo spicchio di strada..
Come a suo tempo in Simenon (o in Italia in Scerbanenco), il giallo e gli ambienti sono tutt’uno, né uno asservito all’altro né uno prevaricatore sull’altro. A Parigi, nel campo profughi di Calais, a Londra, a Oslo, padre e figlio Lucien e Antoine Bertot, protagonisti del romanzo, e l’autore Gianluigi Schiavon (con la “guida” del figlio Gianlorenzo, cui si deve anche una perla in versi contenuta nel libro) ci fanno assistere a quotidianità, violenza, caccia, scivolar dell’Uomo su un piano inclinato dal nostro angolo di strada, come fossimo appena usciti dall’albergo o impietriti dietro i finestrini del pullman.