Due dolori atroci porta questa pandemia. Uno è la routine che ammassa i morti nelle cifre dissolvendone la vita, così che qualche decina di vittime in meno rispetto al giorno prima diventano un terribile “soltanto”. L’altra bruciante sofferenza è la solitudine del loro viaggio.
A ciascuno di loro, al viaggio silenzioso che li accoglie, dedico come un saluto dolente qualche brano di Le stelle fredde (Mondadori, 1970), romanzo di Guido Piovene. Il protagonista, lasciato dalla sua donna, si rifugia in campagna. Qui, da una fenditura in un muro esce uno strano vecchio: è Fedor Dostoevskij, che racconta il suo cammino nell’aldilà.
Era uno spazio accidentato, con liste erbose che correvano tra forre piccole ma abbastanza scoscese. Selvette d’alberi non alti, dei quali mi dispiace di non sapere il nome, ma comuni nelle campagne, accompagnavano il corso di quelle forre o vi si spingevano dentro, mai abbastanza fitti però da fermare lo sguardo. Ogni tanto, tra quelle continue salite e discese, si alzava un monticello erboso, terroso, sassoso, boscoso o cespuglioso secondo i casi. (…)
Era il momento del passaggio tra inverno e primavera, e questo poteva spiegare anche l’acqua mista alla terra. Le rive delle forre, metà erbose e metà terrose, con qualche albero come ho detto, portavano una fioritura abbondante fra un tronco e l’altro. (…) Gli alberi a prima vista, erano spogli, ma a guardarvi più attentamente erano già coperti di foglioline tenere, che in seguito non crebbero ma rimasero allo stesso punto. Non c’era invece nemmeno una foglia morta. (…)
Vidi subito che intorno vi era una certa folla, non stipata però, perché lo spazio era abbondante, ma divisa quasi tutta in gruppi, in piedi sulle liste erbose che erano come tante strade, o seduta dentro le forre dove si poteva restare senza intralciare gli altri. L’aspetto di quelle persone, di varia età, con una prevalenza di anziani, non differiva, per esempio, dal vostro, e giudicai che si fossero riprodotti com’erano al loro trapasso, tornando allo stato normale, in quanto non portavano segni di malattia, d’agonia tranquilla o spasmodica. (…)
Dappertutto esistevano vasti spazi in cui rinascevano altri, unendosi alla compagnia dei marcianti. (…) Le corsie di prato tra le montagnole e le forre erano molte, e offrivano vari passaggi. Chi prendeva l’uno e chi l’altro, mantenendo però la stessa direzione di marcia. (…) La vita era relativamente dolce, in quanto non avevamo bisogni; mai freddo, mai fame, mai sete; l’acqua e i frutti selvatici servivano di decorazione.