“De André è di tutti”, ha spesso ricordato Dori Ghezzi, non per accrescere il numero di tributi e garantire memoria, ma interpretando a fondo il generoso rapporto di Fabrizio e della sua creatività con il mondo.
E’ di tutti, è vero, ma purtroppo si dovrebbe aggiungere “di tutti quelli che si accostano con delicato rispetto”. La serata Una storia da cantare, ieri sera su Rai 1, più che un meditato e affettuoso re-incontro con De André è parsa in più parti un raffazzonato contenitore riempito con il badile, un saccheggio più che un omaggio, in certi momenti più che un rivivere a proprio modo le canzoni uno spingerle a forza dentro il sacco del proprio stile o della propria vanità. E nei dialoghi si coglieva l’assenza di una cura, una scelta, un gusto, una preparazione, era un’offerta di ovvietà più che di gemme lucidate. Il tutto reso più triste dalla consapevolezza che lo spettacolo non era creato da quattro giovanotti che improvvisavano con buona volontà e scarsi mezzi, ma dal primo canale della Rai.
Naturalezza e presenza di Fabrizio le ha portate Dori, delicata nel sorriso anche quando ha dovuto correggere bizze di fantasia di Loredana Berté, che descriveva un De André dubbioso sul lasciarle utilizzare l’appellativo di “pettirosso da combattimento”. “Non credo proprio”, ha detto con dolcezza Dori, proteggendo la generosità splendida di lui.
Per chi lo ha seguito e amato cantare Faber non significa certo dover rinunciare a se stessi e scimmiottarlo (il che sarebbe anche inutile di fronte a un irraggiungibile), ma vuol dire porre quel che ciascuno è a disposizione delle sue parole e della sua musica. Morgan sapeva bene di quel che parlava, ma anziché essere “Morgan affronta De André” era “Morgan che faceva Morgan che affronta De André”. Il rapper Anastasio ha “osato” (e ha fatto bene a osare) la contaminazione, proponendo il punto di vista del soldato che spara a Piero (in fondo pensato da Fabrizio come uno sventurato molto simile, ma sotto un’altra divisa, con altrettanta paura e meno remore), però si è lasciato prendere la mano dall’irruenza del genere rap: più che tentare l’intreccio, ha preso spunto da La guerra di Piero per scrivere un altro brano che usava il primo come scintilla di sé: un conto è scrivere un romanzo sul punto di vista di Don Rodrigo ricordando che vuol impedire a due di sposarsi, un conto è contaminare I promessi sposi inserendo con equilibrio e opponendo ai “buoni” l’incolpevole formazione del carattere del signorotto.
Certo, è stata bella la spontanea adesione all’amico da parte di Mussida e Di Cioccio, grandioso il gioiello di Mauro Pagani sotto la pioggia del porto, un Pagani – padre di quella canzone – che senza la voce possente di Fabrizio rendeva ancor più doloroso il ritorno degli uomini di mare alla terra ferma. Ma che amarezza sentire Ruggeri annunciare Creuza de ma pronunciando proprio “eu”, come leggesse un appunto mai visto prima e non avesse mai sentito, neppure una volta, il brano.
E’ stato un sollievo vedere e ascoltare Paola Turci che offriva come un vassoio o in un involucro trasparente il proprio stile ai brani, senza graffiarli, strapparli, accartocciarli. Ed è stato gradevole sentire Elena Sofia Ricci leggere il testo della Guerra di Piero con la sua metrica, la sua cadenza, senza fracassarla con pause e sospiri come quasi tutti gli attori (che non si chiamino Arnoldo Foà, Vittorio Gassman, Carmelo Bene) fanno con poesia e prosa, che utilizzano non per trasmettere il contenuto ma per far mostra della loro inventiva scenica. Così come trasmetteva sincerità anche nel canto Luca Guanciale, con un timbro di voce così lontano eppure genuino per partecipazione, con volto e modi di chi crede a quel che intona più che alla propria esibizione. Faceva tornare alla mente Luca Marinelli in Principe libero: tanto bistrattato per il retaggio del suo accento, ma così convinto, così “catturato” da Fabrizio da meritare rispetto ed elogio.
E’ vero che, amando De André, è difficile sentirsi accontentati, perché si tende a giudicare non quel che si sta guardando ma la corrispondenza con ciò che ci si aspetta di vedere. Ma se si riesce a disciogliere almeno un po’ questo limite, allora è giusto pretendere che un tributo sia costruito e offerto non come un compito da svolgere ma come una volontà, un sentimento, un saluto denso e convinto. come fanno con professionismo e slancio tanti gruppi per tutto l’anno in giro per l’Italia, come i Khora e Consorzio Anime Salve, per citarne due.
A Fabrizio si può dedicare tutto: cover o reinterpretazione, lettura o aneddotica, rap o imitazione. Non tre cose che detestava: banalità, vanità, superficialità