Venezia come Atlantide, ma non sommersa da un dio come Poseidone, bensì da omuncoli perduti tra ignavia, inettitudine e mazzette di denaro.
Incuria, incompetenza, disinteresse e interessi minavano Venezia già prima che si discutesse del Mose. Li mostrava la più inascoltata delle voci, quella della Cultura. E oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, è un’emozione malinconica prender fra le dita, con rispetto e timidezza, un raffinato libretto: Alcune proposte per distruggere Venezia (Ruggero Aprile editore), scritto nel 1972 da Stefano Reggiani (Verona 1937, Roma 1989), autore di saggi (Sorelle d’Italia, Dizionario del postdivismo, Nel segno del Leone, Il libro dei vizi), del romanzo L’inespresso, critico cinematografico della Stampa e sulla Stampa elegante elzevirista e corsivista con la rubrica Fantacronache.
Con ironia tagliente e amara Reggiani pareva prender atto dell’indolenza umana perfino nel cancellare un gioiello -parafrasando Michael Crichton – troppo bello per vivere. Perciò offriva umilmente il suo aiuto, suggeriva sistemi pratici e ben inseriti in un mondo che correva verso consumismo, spettacolo, violenza, grossolanità: sminuzzarla e farne un colossale magazzino di souvenirs, scatenare un cannoneggiamento da terra e dal mare con spettatori assiepati su chiatte, spedire notturni untori a imbrattar con velenose vernici i muri dei palazzi e le colonne di piazza San Marco a colpi di slogan irridenti come “salviamo Venezia” e “basta con le parole”, giganteschi altoparlanti con clangori e urla di sirene, pericolose vibrazioni, strisciante corruzione dei costumi del popolo.
L’arguto ed elegante Reggiani proponeva la distruzione e irrideva i cori di allarmi e annunci di interventi lanciati nel vento su calli e campielli. Scriveva: “Riconosciamo che oggi Venezia è un esempio conturbante, e pericoloso per tutti. Non serve più a nulla (non alla difesa degli abitanti tra i meandri della laguna, non a dominare i mari con le flotte mercantili, non a ricetto di laboriosi pirati, non a fondare un nuovo imperialismo sulle tormentate coste mediterranee. Resiste solo per la sua bellezza, e questo è intollerabile. La bellezza che regna da sola e che per sé, sola, chiede protezione è uno scandalo verso le altre città del mondo che accettano la bellezza come un accidente secondario e s’ingegnano di cancellarla perché non distragga gli abitanti rendendoli contemplativi, inetti al lavoro e al proficuo impiego del tempo libero”.
Descriveva l’insostenibile contrasto: “Qui si parla di una città che, intera, pretende resistere con la forza di un diritto contestabile, di un inganno. Vicino a luoghi dove già fumano solenni ciminiere, dove l’operosità industriale reca segni fragranti di lavoro organizzato; vicino agli approdi dove le petroliere giungono da fervide lontananze per versare la grezza fonte di energia: in questa geografia ricca e feconda, Venezia è una piaga da sanare, una ferita da chiudere in fretta, con la sapienza dei terapeuti moderni>.
Quindi: “Saniamo i dissidi nelle coscienze di coloro che pensando a distruggere debbono camuffarsi da difensori, vinti da un curioso ricatto ideologico. Sappiamo che il conformismo può solo rinviare, non impedire la loro decisione”.