Nei vicoli “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi” battaglie antiche – quelle per la dignità e la sopravvivenza – s’intrecciano con le nuove, quelle per il denaro e il potere. Il porto di Genova e la città vecchia sono moli, muri, voci, passi, misteri, vita e morte accordati come da un’orchestrina in Il blues della Maddalena (Golem edizioni), sorprendente e affascinante romanzo di Francesco Cozzolino, scrittore genovese di nascita e torinese d’adozione, e Marco Grasso, giornalista del Secolo XIX e saggista (dalla criminalità organizzata alla silenziosa strage dell’amianto).
In questo angolo di mare e caruggi, ai lati e alle spalle del quale si spande e s’arrampica l’ “altra” città, qualcosa scricchiola. E’ piccola cosa, una crepa nel muro dell’appartamento di Federico Eduardo, bislacco giovane dalla personalità disturbata, innamorato di due ragazze opposte, intruppato di giorno in una grande società d’assicurazioni e di notte titolare della Crac, individuale impresa che crea problemi per risolverli, imbrattando di scritte le facciate del quartiere per poi esser assoldata per cancellarli.
Lo sdoppiato passo di Federico si muove in un microcosmo sul quale pare allungarsi quella crepa (un vicino la ripara e lui la riapre) e s’imbatte nella morte e nelle sue oscurità quando a un molo del porto sono trovati i cadaveri di una ragazza albanese seviziata e di un tranquillo e maturo camallo addetto allo scarico del carbone. Indaga il dirigente (facente funzioni) del commissariato Maddalena, poliziotto con tanto passato e poco futuro, solitario, una vita privata miserella, frustrato da una carriera ingiustamente troncata, segnato da un nome – Antonio Persico – da pesce d’acqua dolce davanti al mare di Genova.
La strampalata esistenza di Federico e la tenacia di Persico nuotano nella variopinta, incalzante danza del popolo dei vicoli: vecchi residenti e nuovi arrivati, bottegai ricattati e manovalanza criminale, un verduriere ‘ndranghetista e spietati albanesi, camalli e sbirri, imprenditori sciacalli e politici collusi con le mafie. In mezzo a loro, come un alieno, l’anarchico Scatafascio, rintanato nel suo alloggio bunker che lo protegge dai deliri di persecuzione, e da lì anomalo editore che incarica Federico di inventar aforismi da stampare sulle bustine di zucchero. In quei vicoli minacciati da avveniristici progetti, regina dell’onestà e dell’ottimismo è Wanda, transessuale di nascita brasiliana, che con una cooperativa di puttane e trans si ostina a proseguire il sogno di don Andrea Gallo.
Genova sarà grata a Cozzolino e Grasso di non aver dipinto un luogo comune, uno stereotipo, bensì d’aver dato fiato, con dolente e insieme scanzonato realismo, a un mondo oppresso e poetico, antico e in evoluzione. Non scendono dall’alto a giocare con un pittoresco teatro, lo respirano con la naturalezza di Fabrizio De André, il suo celebre cantore che lì stava più sereno che a una cena borghese. I due autori raccontano “vera gente, mica roba tirata su aiutandosi con i ricordi del cinema”, come disse Elio Vittorini di Sei stato felice, Giovanni, romanzo d’esordio (nel 1952) di Giovanni Arpino, storia di vita picaresca nel dopoguerra tra pensioncine, prostitute, coltelli di questo stesso intreccio di vie , con un protagonista anche lui diviso tra due donne, una puttana e una cameriera d’alberghetto.
Come Arpino e De André, Cozzolino e Grasso percorrono vicoli e persone con occhio giovane e alternativo, sdoppiandone l’anima: da una lato quella locale, delineata, riconoscibile, alla quale non soltanto i genovesi sono affezionati, dall’altra un pulsare, torcersi, piegarsi, impennarsi dell’animo umano che fa della città vecchia qualcosa di universale, un guscio aperto e disseminato per il mondo. Proprio come la crepa che apre la storia, che da un muro d’alloggio si dilata all’anima dell’individuo e del poetico mondo che lo circonda, da qui alle forze che l’accerchiano e minacciano, per poi volare ovunque.