Giuliano Soria riposa in pace. In pace dai nemici sinceri e dagli amici di stagione, dagli onori delle cronache culturali e dall’umiliazione di quelle giudiziarie. Docente universitario, creatore del Premio Grinzane Cavour, traghettatore di grandi nomi stranieri in Italia, è morto agli arresti domiciliari in una casa di cura dopo la condanna per l’uso illecito di contributi pubblici e per i maltrattamenti a un collaboratore domestico.
Ho avuto a che fare per tanti anni con Giuliano Soria, con il suo carattere dalle oscillazioni incredibili fra generosità e prepotente pretesa di visibilità. Ora che se n’è andato nel disonore, nello sbriciolarsi di quel suo atteggiamento da re della Cultura, sono intristito da chi, riferendosi ai reati, dice che “era un cialtrone” e chissà che a suo tempo non abbia disdegnato il corrotto desco, rasserenato da chi, come un suo collaboratore ha scritto, ne ha patito l’umoralità e i toni da dittatore eppure ne riconosce intuito, creatività, entusiasmo. E sorpreso da un lenzuolo di voci in silenzio.
Questo silenzio è segno dei tempi, dell’individualismo imperante. Alla mensa di Soria si sono nutriti editori, scrittori, critici, giornalisti: pranzi e cene, giurie e viaggi, premi e convegni, promozione e denaro. Era temuto, amato, onorato, odiato, sfruttato e poi rinnegato. Più onesto è condannarne i reati, raccontarne la megalomania, senza che questi annientino l’intuizione culturale (che lui stesso rendeva indigesta quando entrava al Salone del Libro di Torino come ospite e lasciava trasparire tutta la sua rivalità con gli organizzatori).
I miei rapporti con Giuliano erano, da parte sua e mia, di rispettoso incontro e di aperti scontri. Una mattina, a Parigi, mi investì davanti ad alcuni colleghi perché La Stampa aveva dedicato una sola colonna di quaranta righe al ruolo del Premio Grinzane al Salone del libro parigino. Rivolgendosi a me come empio traditore alzò la voce: <Vi scarrozzo gratis a Parigi per leggere un pezzetto di quaranta righe?>. Gli feci presente che, da volenteroso cronista, a Parigi andavo al seguito del Grinzane come ci ero andato con i viaggi delle pentole o su un Tir durante il blocco nel traforo del Monte Bianco: <Invitando i giornali non comperi gli spazi e non acquisti il potere di deciderli tu>. Dopodiché andai alla reception, chiesi il conto, pregai di prenotarmi un volo. Si rabbonì, disse che l’avevo frainteso, che era stato uno sfogo. Era così: arrogante fin dove glielo consentivi, poi pronto alla ritirata. Facemmo pace.
Quello scatto veniva dall’essere Giuliano Soria tutt’uno con la sua creatura, fino all’eccesso. Il Grinzane era quel che era grazie a lui, lui era quello che era grazie al Grinzane. Resto convinto che i reati per i quali è stato condannato non siano nati da un’indole ladra o prevaricatrice, ma da una sorta di delirio di onnipotenza (come in altri casi di personalità geniali che hanno ritenuto quasi un tributo alla grandezza il denaro illecito).
Grazie agli sponsor e alla Regione non gli era difficile far felici i suoi ospiti, i suoi relatori, i suoi viaggiatori. Però pretendeva: perché il prestigio del Premio e quindi anche suo erano legati alla consistenza della Rassegna Stampa. L’uno faceva crescere l’altro e viceversa. Più che da farabutto era uno scambio da spirito esaltato. A questa sua visione di sé – principe che dispensa e pretende – mi sono sempre opposto. I rapporti si sono a volte raffreddati e poi per forza di cose ci siamo reincontrati. Credo sia stato un tentativo di riappacificazione a fargli fare una telefonata un po’ vaga: <Volevo invitarti a pranzo, per parlare un po’. C’è un amico che vorrei farti conoscere> . Andai, curioso e sbuffante. Nell’hotel dove avevamo appuntamento mi dissero che era al bar. Parlava con una bella donna e con un uomo che mi dava le spalle. Mi vide, fece un gesto di saluto e allora l’uomo si voltò. Era José Saramago.
A tavola parlammo molto, eppure Giuliano Soria si teneva in disparte, interveniva il meno possibile. Chiesi a Saramago di rivederlo l’indomani e Giuliano sorrise: <Per forza. Domani c’è la conferenza stampa>. Poi capì e mi guardò soddisfatto del regalo che mi aveva offerto. Tornai da Saramago, al di fuori dall’incontro ufficiale, con tutti i suoi libri che avevo a casa per farmeli firmare. Il contatto rimase, ci scrivemmo, ci sentimmo al telefono e mi rilasciò la prima intervista quando il Portogallo ritenne impossibile una sua candidatura al Nobel per ira contro il Vangelo secondo Gesù Cristo. Ci rivedemmo a Milano quando Einaudi fece tradurre in italiano Cecità.
Ora che Soria è morto, ora che si sono dissolti il suo entusiasmo e la sua prepotenza, la sua sfida e la sua rinuncia di fronte a chi era indifferente al suo potere, ricordo il dono dell’incontro convinto che sia giusto dir di lui tutto il male che gli spetta – per il carattere, per i reati – e tutto il bene che gli si deve per l’intuito, l’istinto, la preparazione, la dimestichezza con i Grandi, il coinvolgimento delle scuole che alla Cultura in Italia tanto hanno dato.