Alle deliranti polemiche che storpiano l’Italia se n’è aggiunta una sui giornalisti al Festival di Sanremo. Non è il caso di stupirsi in un Paese dove sui social tutti – parlamentari e affini in testa – sono la mattina scienziati, il pomeriggio economisti, la sera sociologi o psichiatri.
Quel che dà fastidio è forse che la categoria, oltre ad avere una sua storica tribuna, parli anche dal “palco” che gli altri considerano tutto loro. Non si tratta qui di difendere – a priori o a ragion veduta – una professione, una storia, dei colleghi. Ma di sorridere sul fatto che far polemica sui giornalisti al Festival è come ascoltare il parere dell’idraulico e poi gridare che gli idraulici in quanto tali sono malvagi e non devono occuparsi di tubi e rubinetti.
E’ vero che in Sala Stampa si sono sempre aggirate (e si aggirano) bizzarre macchiette che considerano la rassegna più determinante di una riunione dell’Onu su un’imminente guerra, che ritengono uno scoop scoprire in che albergo alloggiano Al Bano e Romina Power, che si divertono a sparare sui cantanti come cecchini sulla Croce Rossa. A questi ultimi diede una lezione, tanti anni fa, Mauro Pagani. I critici e cronisti più scalmanati sghignazzavano e sfottevano Mino Reitano con la sua Italia. Ammonì Pagani: “Se cambiamo una parola qui e una là e la incide De Gregori quelli che ora sfottono saranno gli stessi che grideranno: poesia, poesia!”.
Al di là di pittoresche figure in gita scolastica o ansiose di protagonismo, ho sempre visto professionisti molto seri (con i loro gusti, certo, legati anche a un ricambio generazionale che a parole tutti auspicano) che fanno il loro mestiere e cercano di farlo bene, che fanno domande ed esprimono opinioni, proprio come accade in politica o in cronaca giudiziaria (che spesso diventano tutt’uno). Ma oggi lo fanno in un tempo nel quale conta solo ciò che io – senza titolo, senza preparazione, convinto che le note siano due, che uno spartito sia un distratto che se n’è andato – scrivo su Facebook, Twitter e compagnia. Quel che persone serie dicono in sedi più paludate o con tradizione e antica credibilità conta meno del frastuono collettivo ed è – ancor più se si permettono di alzare un dito nel “mio” social – una prevaricazione, una provocazione, un attentato.
Ma a volte c’è la sorpresa. Fra i giornalisti al Festival ci fu anche, a sua totale insaputa, Fabrizio De André. A fine Anni ’80 il direttore della Stampa Gaetano Scardocchia ebbe la curiosa idea di spedire più volte a Sanremo, con esperti di calibro, anche un cronista del piccolo vivere quotidiano, tal Neirotti. Partecipò alla rassegna anche Dori Ghezzi e Fabrizio l’accompagnò. Prima ancora di sfiorare l’ingresso dell’Ariston, andai all’hotel Londra a salutarli. E da quel momento frequentai molto più bar e ristorante del Londra che il teatro.
Fabrizio era un generoso. “Non dovresti lavorare?”, domandava. “Devo cercare il tale, ma dicono che ha già concordato un’esclusiva”. Lui sorrideva al cameriere: “Ce ne porta altri due? Ah… se vede il tale gli dica che vorrei offrirgli un aperitivo”. Non ricordo rifiuti agli inviti. Poi Fabrizio buttava lì: “Il mio amico voleva chiederti…”. E a cena, davanti alla tv, se ne usciva più che con commenti con lampi, definizioni di una voce, di un volto, di un atteggiamento. Io annotavo.
Il direttore Scardocchia mi disse: “Ottimo lavoro. A volte hai lampi sorprendenti…”. A lui, a lui soltanto, dissi la verità. Non l’ho mai raccontata ad altri per non dare una botta alla mia credibilità professionale. Ma ora che tutti picchiano sulla categoria faccio presente che a volte, dove non arriviamo di nostro, noi abbiamo consulenti non da poco.