Quando mi trovai con un cancro addosso, mi accadde – pur tra sofferenza e paura – anche di sorridere: non grazie agli incoraggiamenti, ma proprio di essi. Tanti mi citavano casi finiti in guarigione e io pensavo che se il cancro non è contagioso nemmeno la guarigione lo è. Quei racconti non erano consolatori: il futuro appare al malato nelle caselle delle statistiche, perciò tutti quei fortunati si erano già fregati percentuali di buona sorte.
Fu anche questa annotazione a farmi raccogliere gli appunti scritti durante i tribolati mesi. Tornavo salvo da un carcinoma del cavo orale che correva per i linfonodi lungo il collo. Paura e dolore, ironia e dialogo con la morte erano giù sulla carta. Li riunii in un libro, Stazione di sosta (Interlinea, seconda edizione 2016), facendo un patto con me stesso e con i lettori: non ci sono eroi, non si danno ridicole pacche sulle spalle e tanto meno esempi o consigli. Scrivevo: “Il cancro è un vulcano ciascuno scioglie il suo canto, roco e asciutto il mio. Non esistono due persone che possano vivere allo stesso modo la medesima avventura, soprattutto quando ogni attimo è una curva. Nessuno ha una verità, nessuno è una verità”.
In quest’ottica, nella Giornata mondiale per la contro il cancro, ho scelto spicchi di quelle pagine, non per tardiva autopubblicità, ma per istintiva vicinanza a chi sulla quella strada si muove. Perché il cancro morde il corpo, ma attacca anche la mente.
Meglio tacere. La mattina, appena chiusa la telefonata con Alessandro che diceva “carcinoma”, mi sentii salutare da un simpatico omino che non vedevo da un anno. Mi trotterellò incontro e, appena vicini, esordì: “Chi non muore si rivede”. Dammi il tempo, caro.
Statistiche. In che percentuale entra ognuno di noi? Che fine fanno, come danzano i numeri quando escono dai computer e diventano persone dondolanti in strada o nei corridoi dei reparti, con nomi, abiti, pigiami, flebo, pianti, speranze, mentre la guarigione passa, sbircia, s’infila in una stanza e nell’altra no, e chissà perché ha deciso così e non all’opposto.
Futuro ignoto. Adesso che (con gli esami radiologici) si è fatto distinguere non è tanto brutto. E’ come i rami parassiti sugli alberi, assurde fughe verdi nel rosso scuro di un pruno: si recidono. Oppure i contadini per la metcalfa o la processionaria fanno “il trattamento”, avvelenano e sciolgono il nemico, non sradicano tutta la vigna, il bosco, la siepe, uccidono l’ospite.
Perché a me? Come sei arrivato qui? Risponde uno sprezzante silenzio. Che senso ha rispondere? Quando ti sarai flagellato con ira non sarai guarito. “Ho quello che ho fumato e bevuto”, disse Giovanni Arpino, colpito dallo stesso male alla gola. Avrei voluto somigliargli in molte cose, mi devo accontentare della più balorda e triste.
Consolazioni. Raccolgo consolazioni delle quali un malato sa anche fare a meno: un amico sopravvissuto a quattro spettacolari interventi, un parente guarito alla perfezione, ma una metastasi se l’è portato via tre mesi dopo, però era guarito, (…) gente aggiustata da un miracolo all’estero e stritolata da un camion durante il ritorno. Si evita di ridere per educazione, non per tristezza. Anche se pensi che puoi morire, sei fortunato, può darsi che lo fai tranquillamente senza che ti diano una spinta un tir o un chirurgo con un tic alla mano.
Affetti. Chi è accanto più lenisce il tuo male interiore più ne riceve. E’ come se il malato travasasse negli altri già stanchi anche una parte dei suoi gravami. Noi prendiamo il calmante e, quando ci assopiamo, chi ci assiste per amore scende nella sua solitudine. Siamo disgraziati, non eroi, siamo egoisti, non coraggiosi.
Ansia di bilanci. Inutile rinviare l’unica domanda semplice e drammatica: rifaresti tutto? Sì o no? Questo sì e questo no. Tutto nel suo insieme? Di nuovo non osi dire e dire non serve, non ha senso dividere adesso in due la pagina e stilare gli elenchi per scoprire quale è più lungo, sai già qual è più lungo. Allora si cambia strada. Si chiamano ricordi belli e ricordi brutti. E’ banale. Non è vero che è banale, è la semplicità della vita. (…) Ci si può assolvere da quasi tutto, mai da tutto.