Cesare Battisti è stato catturato, riportato in Italia e chiuso in carcere in quanto uomo condannato per aver preso parte a quattro feroci omicidi. Farne il testimonial di uno spot politico è immorale verso le forze dell’ordine che hanno lavorato con impegno, verso le vittime e i loro familiari, verso tutti i detenuti d’Italia e anche verso di lui che, pur infinitamente atroci quelle morti, pur insopportabile il suo sorriso-ghigno, è una persona posta dallo Stato sotto la sua custodia.
Questa storia dolorosa, tragica, inquietante è stata piegata a una rappresentazione della vanagloria di governo e travolta da una bufera di parole, comportamenti, esibizioni oltre la soglia del ridicolo.
Il vento pubblicitario soffiava da tempo sul caso Battisti. Uno dei creativi più abili è stato il neopresidente brasiliano Bolsonaro. Anticipando l’annuncio d’estradizione, ha fatto tre regali senza sforzo: il primo al leader della Lega fornendogli una bandiera al vento che cambia; il secondo a Battisti stesso, avvertendolo che era ora di cambiare aria alla svelta; il terzo a se stesso spostando altrove il problema.
Catturato il latitante grazie al lavoro di uomini e donne della Polizia, due ministri italiani sono andati a farsi riprendere a Ciampino impettiti come per l’arrivo d’un Capo di Stato. Per che cosa? Per controllare che gli stessi uomini e donne che l’avevano acchiappato non se lo lasciassero scappare sul più bello? Per verificare che fosse proprio lui? Per avere un posto privilegiato all’arrivo di una persona nota nel mondo? Per fargli il gesto dell’ombrello? Dicono d’averlo fatto per esser vicini a chi l’ha catturato. Una persona normale, una persona che non mette la propria faccia sulla fatica altrui, avrebbe invitato quegli inquirenti l’indomani a Palazzo per conferire con solennità e pubblicamente un encomio, una promozione, un aumento di stipendio. Ma così sarebbe scemata l’identificazione arresto-ministro.
Si sono diffuse immagini da spot e, per meglio celebrare la grandezza (quella politica, non quella investigativa) si è tenuto l’arrestato in piedi in una stanza per minuti non a far le classiche foto d’identificazione ma a beneficio di telecamera perché fosse nitido il concetto di “mostro in gabbia”. Lo Stato nei confronti della dignità di qualunque detenuto – anche i colpevoli dei peggio crimini – ha dei doveri che partono dalla morale e si fissano nella Costituzione, non ha diritti di sfruttamento d’un trofeo. Quello elettorale è sfruttamento di una persona come trofeo. Vale per Battisti, per un uxoricida, per un infanticida.
“Marcire in galera” ha detto il più aggressivo dei due ministri. Si può capire se lo dicessero (in questo caso non è successo) il parente d’una vittima o un arruffapopolo da bar. Non può dirlo chi, per quanto rozzo, ha giurato sulla Costituzione. Quanto poi a “infame” lo stesso politico non s’è reso conto di usare una parola che è stata scippata al vocabolario dal linguaggio criminale con uno specifico senso. La volgarità dello spot dilaga poi nel dare a Battisti del comunista per inseguire una paura e un odio già seminati dall’amico Berlusconi, senza un filo di rispetto per quei comunisti che, come Guido Rossa, la lotta armata ha lasciato a terra nel sangue.
Per non esser da meno negli slogan, il collega cinquestelle impettito anche lui all’aeroporto si è lanciato a vedere nella recita la dimostrazione che “nessuno sfugge alla giusizia italiana”. Coraggio allora, ministro, c’è molto da fare, ci sono vicende come Eternit e Thyssen, uomini che tremano davanti alla sua grinta.
E’ vero che, a forza di girare spot, questa gente ha poco tempo per lavorare davvero e far più danni del lecito. Ma un danno riesce loro bene: inculcare culti di sé e miti che divengono esaltazioni. Ci aveva già avvertiti, parlando Storia, lo scrittore Carlo Sgorlon nelle pagine della Carrozza di rame: “Forse una cosa era vera soltanto se partecipata, condivisa, creduta da molti, anche se si trattava di un’assurdità. Gli uomini non erano nati per la verità, che respingevano con tutte le forze, ma per il mito”.