Si sono abbassate luci, spenti microfoni, riposti strumenti, riassorbiti ognuno dentro di sé i ricordi. Perdonate se torno a parlare di Faber. Non è un bilancio dei giorni dedicati a lui, è ascoltare l’eco del canto comune
Ha detto bene Darwin Pastorin venerdì sera al Circolo dei Lettori di Torino: “Che cosa De André ci ha dato lo si capisce dal fatto che a vent’anni dalla sua morte in tutta Italia si sta cantando insieme”. Non soltanto memoria, data simbolica, bensì un lungo momento di comune affetto, ciascuno condividendo con gli altri il proprio, su un palco o in platea, nel gigantesco animo pulsante collettivo. Perché? Una risposta l’ha data sabato pomeriggio, ad Asti, Paolo Finzi: “Faber continua a parlarci perché i suoi versi, la sua filosofia, sono una continua scoperta”. Passano anni, ne passano molti, e qualcosa di sorprendente cogliamo all’improvviso. Non ripetiamo musica e parole divenute, per quanto morbide, statue immutabili, maneggiamo anzi con cura uno specchio nel quale ci vediamo – anche “di spalle” – mentre andiamo, torniamo, ci fermiamo stanchi, ripartiamo cambiati da inciampi e slanci della nostra piccola vita.
E’ difficile che questo accada. Con lui avviene perché il suo testo, il suo pensiero, la musica e la voce evocativa non porgono una tesi, diffondono una realtà non da capire ma da avvertire come brivido o calore: è far proprio un percorso più sinuoso, più attento, più intenso di quello del quotidiano procedere incerto e condizionato dall’ambiente, dalle grida, dal frastuono, dall’arroganza delle certezze vuote perché senza storia.
E’ raro questo portar con sé qualcosa che non è definitivo, ma si modella gentile sul nostro soffrire, gioire, domandare. Da quattro anni succede nei teatri con i brani dell’ Ultimo giorno di sole di Giorgio Faletti, un altro artista che non c’è più: il rincorrersi delle identità in Alias fa i conti con il tempo che resta e “con quanto tempo sarà”: “loro come voi come noi come lui come te / come me / per amore quando c’è”.
Esistono in poesia sintesi che s’imprimono in noi in un certo momento e poi, nei momenti che verranno (“se c’è tempo”) ci riveleranno di volta in volta a noi stessi e continueranno a disvelarci realtà nostre o altrui che avevamo sfiorato con lo sguardo ma non con la mente.
Fra i collaboratori di Faber ci fu, anche lui scomparso troppo presto, Piero Milesi, soprannominato da De André Geppetto per i capelli bianchi ma anche Tentenna per i continui dubbi e verifiche durante il lavoro. Ebbene Milesi di ricorrenze e tributi aveva timore, il timore che i professionisti del ricordo finissero per scivolare talvolta nella caricatura o nel santino di Fabrizio anziché lasciarlo pronto a sorprenderci, con una tristezza o un’ironia, con il sorriso che gli si aprì di fronte alla splendida foto di Guido Harari, fotografo di fiducia sì, ma con la libertà dell’amicizia vera (e mi perdonerà se uso una sua immagine), che lo sorprese addormentato accanto a un calorifero. Fabrizio prese quello scatto e ci scrisse sopra: “Con il culo esposto al radiatore / s’era assopito il cantautore”.
In questi giorni – per quel che ho sentito di persona e quel che mi hanno raccontato – Faber era ovunque, concentrato su un libro o un foglio, attento ad ascoltare le domande di uno che l’aveva appena avvicinato, oppure sdraiato vicino al termosifone. E se qua e là qualcuno poteva essere tentato di fare il “professionista” ci hanno pensato i volti affettuosi del pubblico a disperdere con garbo nell’aria le fughe personalistiche, creando una soggezione, come se nelle poltrone di mezzo ci fosse anche lui con una gamba accavallata sull’altra. Anche per questo i musicisti (quelli di cui mi hanno raccontato e quelli che ho ascoltato, il Consorzio Anime Salve ad Asti, a Torino gli Statuto che hanno offerto un Pescatore che vibrava come una promessa di futuro) non hanno scimmiottato l’originale, hanno sparso nelle sale quello che loro sentivano.
Proprio Il pescatore ha fatto sorridere i social per il bislacco omaggio del leader della Lega che citava i primi versi come non sapesse dove andavano a parare. Non cito questo esempio per polemica con lui, ma per sottolineare la forza che ha oggi De André. Negli ultimi tempi, proprio sui social, il tono indignato di chi si oppone a razzismo, emarginazione, disprezzo si è fatto sempre più duro e aggressivo, talora adottando lo stesso linguaggio, lo stesso tono, che andrebbe lasciato alle anime di roccia disfatta in fango. In questa occasione, invece, ha prevalso l’ironia. E qui traspare molto di quanto ha seminato la dolcezza di Fabrizio.
De André – il poeta, il musicista, l’uomo – lascia in ognuno di coloro che l’hanno amato un segno inscalfibile, un dialogo aperto. E per questo il grande, rispettoso, affettuoso celebrarlo insieme prosegue adesso nel coltivarlo ciascuno come un miele che una volta dentro protegge dall’aridità dello spirito.