Giorgio Faletti è uno dei rari scrittori che accende nel lettore, via via che questi s’addentra nelle pagine, non soltanto sintonia con il libro ma anche affetto per lui. Una simpatia ed empatia istintive, slegate dalla consuetudine con il suo volto e le sue parole, in tv, cinema, canzone.
Faletti non aveva una ricetta per generare questo sentimento, bensì un’istintiva capacità di porgere temi drammatici, poetici o ironici come carezze rassicuranti: stai tranquillo, ti accompagno lungo questa storia. La potenza di questo sotterraneo dialogo diretto con lui ha trovato una sintesi straordinaria in teatro, dove Chiara Buratti ha portato con eccezionale forza e delicatezza L’ultimo giorno di sole.
Benché postumo, L’ultimo giorno di sole (ancora in scena dopo quattro anni) prosegue la sensazione di presenza fisica benché impalpabile dell’autore. Anche per questo, di volta in volta, abbiamo accolto nuove uscite editoriali come se l’indomani potessimo chiedere a Faletti una firma sulla prima pagina. E’ così anche per il brevissimo racconto, La ricetta della mamma, pubblicato da La nave di Teseo e divenuto cortometraggio prodotto dalla moglie Roberta Bellesini, diretto da Dario Piana, sceneggiatura di Giovanni Eccher, protagonisti Giorgio Berruti e Andrea Bosca.
E’ la storia della meticolosa preparazione di un omicidio: Nico Torre, uno dei più infallibili liberi professionisti dell’assassinio su commissione, si apposta in un appartamento – in breve assenza dell’inquilino – per eliminare con un solo colpo un testimone di giustizia. Tutto procede alla perfezione, l’unico imprevedibile è un dettaglio carico di tradizione, memoria, buon palato.
Leggendo queste pagine, meticolose e rapide nelle descrizioni, così naturali nel dipingere piccoli elementi che colpiscono un uomo che si direbbe concentrato sul “lavoro”, sotto il gusto della trama, dello stile, della sorpresa, dell’ironia, ciascun lettore avverte la strizzata d’occhio, la stretta di mano, il procedere verso il finale “accanto” a Faletti che inventa e scrive.
Questa sensazione mi ha fatto tornare in mente una chiacchierata, un’intervista per La Stampa, quando nel 2008 uscì Pochi inutili nascondigli. Prima di entrare nel merito del libro fece domande, volle sapere impressioni e poi spiegò: <Sono sempre curioso di leggere che cosa secondo i critici volevo dire> .
Erano racconti soprannaturali, bellissimi, una <vacanza dal giallo puro, che pone limiti, ha una serie di pastoie, dalle impronte al Dna. Qui hai molta libertà, la fantasia si muove a tutto campo>. Quanto al racconto come genere sorrideva della generale diffidenza degli editori, molto più che dei lettori: <E’ capitato anche a me. Tempo fa ne mandai, alcuni, mi dissero che erano scritti benissimo, ma come esordio non erano appetibili. Sono tornato con 700 pagine. In realtà il problema è la dimensione giusta>. Fece un esempio: <La prima volta che ho visto la Gioconda sono rimasto deluso. Mi aspettavo una cosa più grande. La Gioconda doveva invece essere così> .
In quel dialogo si ritrova un modo d’affrontare l’impegno della scrittura e il peso di un successo internazionale che spiegano perché lo si sente presente mentre si legge, mentre si sorride e si vuol sapere se Nico Torre centrerà la vittima e se e quanto la gola lo intralcerà. Nico è un uomo immerso in una solitudine e di solitudine parlammo anche dieci anni fa: <Spesso si è artefici della propria solitudine, la si teme e la si crea, anche in un contesto di collettività>. Come incidono i social? <Quello è anonimato, paura del contatto diretto. Sostituisce il vecchio radioamatore che dal baracchino parlava con uno che magari abitava in fondo alla stessa strada. Ti nascondi, sì, io posso dire di essere alto un metro e novanta con folta chioma. Ma se il diavolo non è mai brutto come lo si dipinge, anche l’angelo può non essere bello come lo si immagina>
Nico Torre non odia, esegue un compito. Ma quanto odio intorno a noi, gli chiedevo già allora. Può essere letta alla luce del presente la risposta: <L’odio è un motore incredibile. Sia odio sia stupidità sono letali. Se li metti insieme fanno il nucleare. L’odio almeno contiene una personalità, a differenza di invidia e maldicenza. Ne stiamo vivendo tanto, dalle vicende mondiali allo stadio dove ci si accoltella per una maglietta a strisce diverse>.
In letteratura però <l’odio è succulento, attraente e allettante>. Gli domandai se era un lettore di cronaca nera: <Sì, fa parte del mio lavoro>. Ma ha un binario diverso dalla narrativa: <E’ curiosa la cronaca: se io avessi inventato un romanzo con la vicenda della figlia segregata appena scoperta in Austria, i critici mi avrebbero mandato a cagare veloci>.
Solitudine, odio, fabbrica di mostri: <Vedendo in cassetta il mostro di Lochness cominciai a chiedermi che cos’è il mondo per una creatura che si sente minacciata da noi e deve nascondersi per sopravvivere. Così attuale, in un tempo in cui si mostrano facce diverse dalla propria, come fossimo tutti cavalli di Troia>.
Rileggendo le sue frasi ho capito perché viaggiando tra assassini, vittime e investigatori, ascoltando versi come <si nasce si cresce si riesce si giura si nega / e infine impauriti per quello che è stato si prega>, non si è soltanto pervasi dall’opera di un artista, ma si cammina fianco a fianco con lui.