Fabrizio De André faticava ogni volta ad affrontare il palco: per timidezza, ma soprattutto per il timore di non offrire quanto il pubblico si aspettava. Poi, davanti al leggio, si offriva con generosità infinita. Dopo la serata, stanco e sorridente, accoglieva chi riusciva a conquistare i camerini, ascoltava, rispondeva, domandava. Spiegò: “Mi sembra di aver dato poco con un concerto, di non aver dato abbastanza, e allora trovo giusto rispondere a una loro domanda, avere le loro opinioni”.
Vent’anni dopo la sua morte continuiamo a fargli domande, a chiedergli riferimenti spirituali, politici, sociali, letterari o dettagli di un’ispirazione, un suono, un arrangiamento. In questo mare di attese e risposte si muovono, come accorti pescatori, due nuovi libri: Anche le parole sono nomadi, a cura della Fondazione Fabrizio De André (Chiarelettere editore, postfazione di Erri De Luca) e Falegname di parole di Luigi Viva (Feltrinelli).
Il volume della Fondazione sposa testi di canzoni ad appunti di Fabrizio, a lampi geniali pronunciati durante interviste o nel corso dei concerti, dividendoli per temi: l’infanzia negata (da Maria nella Buona novella al Girotondo o Sidùn), la vita subita (<Quando c’è una persona che si fa sentire o si fa credere più forte e riesce a mettere insieme altre persone frustrate garantendo loro la possibilità di uscire da questo stato attraverso un gesto di violenza collettiva si arriva così al fascismo di massa), il conflitto (<L’azienda che profitta vive, l’azienda che non profitta crepa. Se questa nobile massima la estendiamo dalle aziende alle persone decreteremo la morte per inedia o per suicidio di milioni di esseri umani>), poi la cecità (narrando la nascita di Storia di un impiegato), la vita negata (raccontando l’Antologia di Spoon River, Preghiera in gennaio, La ballata del Miché), il riscatto (Se ti tagliassero a pezzetti, dove <la libertà riesce a disotterrarsi e a riemergere>).
Potere e sopraffazione, emarginazione e ribellione, minoranze e rapporto con Dio. Sono parole, frasi, concetti, reazioni, riflessioni che conosciamo quando già si sono fatte musica e che d’improvviso aggiungono altra luce. E’ un poco reincontrare Fabrizio quando, citando Benedetto Croce, diceva a che da bambini tutti scrivono poesie, da adulti le scrivono soltanto i poeti e i cretini, e allora per evitare rischi preferiva lasciarsi definire cantautore (o, meglio, trovatore).
Questo trovatore ci viene incontro, pagina dopo pagina, grazie a Luigi Viva, amico, biografo e studioso di De André, che ci accompagna come graditi ospiti in una passeggiata con Faber: mentre scrive, quando entra in sala di registrazione, al concerto.
Brano dopo brano, disco dopo disco, tournée dopo tournée Viva ci mette in condizione di dialogare con Fabrizio, con i coautori, i produttori, i musicisti, gli arrangiatori, i tecnici del suono, ci illustra il dettaglio d’una scelta che fa divampare il potere evocativo, di un incontro che dà una svolta, di una ricerca continua, il tormento di un perfezionismo che esalta lo poesia, ci lascia curiosare nella grande fucina di emozioni.
Luigi Viva riesce in un’impresa ardua: sezionare una canzone o un disco, illustrarne origine, composizione, passaggi, strumentazione, scelte intellettuali e scelte professionali senza cadere nella freddezza descrittiva, senza graffiare la magia, invitando anzi a lasciarsene invadere con maggior consapevolezza.
Consapevolezza di un lungo percorso che non si è interrotto, perché rimasto sospeso nel passaggio dal presente al profetico. Disse Fabrizio a proposito di Smisurata preghiera: <Ieri cantavo i vinti, oggi canto i futuri vincitori>. Che sono le stesse persone: <Chiunque coltivi le proprie diversità con dignità e coraggio, attraversando i disagi dell’emarginazione con l’unico intento di rassomigliare a se stesso, è già di per sé un vincente perché muove la storia, perché è soltanto dai comportamenti non uniformi e non omologati al gregge della maggioranza che l’umanità, tutta l’umanità, riesce a trovare spunti evolutivi>: