E’ difficile scovare le sorgenti del veleno razzista che percorre come un sistema venoso la società. Talora è l’arte a indicarle in poche battute. Ieri sera La7 ha mandato in onda La tregua, film del 1997 di Francesco Rosi tratto dal libro di Primo Levi (del 1963) che racconta il ritorno dal lager.
Durante il cammino Ferrari (Claudio Bisio) chiede a Levi (John Turturro) del suo passato, delle ragioni che l’hanno condotto ad Auschwitz. Poi racconta di sé: ladro di professione, detenuto, ha accettato l’offerta di esser liberato se disposto ad andare a lavorare in Germania. E lì s’è trovato recluso molto peggio di prima.
Nel commiserare se stesso (“Perché a me?”) non avverte il veleno che già gli scorre dentro a sua insaputa. Confrontando la propria storia con quella di Levi, con candore gli dice: “Tu sei ebreo, eri partigiano, ma io? perché a me?”. Con questo non vuol dire che era giusto rastrellare, rinchiudere e gassare gli ebrei, ma soltanto che nella distorta logica nazista per Levi c’era una spiegazione, per lui no.
Questo passaggio in La tregua è uno squarcio mostruoso sul veleno generato da un istintivo, minuscolo egoismo per il quale si accetta l’ineluttabilità dell’orribile per autoproteggersi, si vede nella diversità (etnica, religiosa, fisica, sessuale) l’elemento che dà origine a persecuzioni aberranti dalle quali – immuni da tali caratteristiche – dovremmo essere più protetti. C’è il darsi una spiegazione che può far inorridire ma in qualche modo tutela l’inorridito.
Sconvolto e angosciato per la ingiusta sorte che gli è toccata, Ferrari confronta un “inganno” con una atrocità del pensiero e dell’azione, l’intento di procurarsi braccia per il lavoro con la pianificazione di uno sterminio e, dal suo punto di vista di vittima, “sente” la prima meno grave della seconda.
Il ladro deportato è un ingenuo travolto dai tempi e nel condividere il viaggio non percepisce alcuna differenza tra sé e l’ebreo Levi, però sulle cause della comune tragedia si appella alla diversità, che rende lui vittima più ingiustificata rispetto all’altro. C’è in quella frase lo specchio esasperato del vivere di oggi in un terreno sociale dal cui sottosuolo paura individuale e istigazione politica fanno affiorare il veleno razzista.