Desirée, la danza degli avvoltoi

Povera Desirée. La sua morte grida il dissolversi dell’umana pietà.

Intorno al cadavere danza compiaciuto chi ne trae concime per l’odio o chi dell’odio è ormai lo spettro vagante: cade a proposito una sventurata che va a farsi ammazzare da “belve guarda caso straniere”. Non c’è spazio per piangere con semplicità la fine di una sedicenne senza appigli per la vita. E chi prova ripugnanza per il pasto selvaggio è costretto a trascurare la sofferenza per arginare – con cifre, esempi, altre tragedie – la ferocia degli sciacalli seduti intorno al corpo come a una tavola imbandita.

Desirée è stata inghiottita da uno spicchio d’una nostra città, la capitale, uno spicchio che non è spuntato improvviso per lei, ma stava lì da tempo, tollerato magazzino e supermercato per serate borghesi, nottate di movida o esistenze abbandonate. Ci è finita come tante altre fin qui sopravvissute, non per accortezza loro o attenzione sociale, bensì per fatalità.

E’ morta, questa ragazza, per mano d’immigrati, ma è stata consegnata a loro dalle eleganti multinazionali delle droghe, abbandonata all’ingranaggio da uno stato senza futuro per i giovani, che ben sa di quelle voragini mortali piantate tra i quartieri, le tollera come ghetti dovei “chi va se la cerca”, abdicando a ogni dovere di risposta sociale e poliziesca.

La solitudine di Desirée è annegata nella violenza e nella morte in mezzo al nostro gioire e imprecare, non su un’isola o su un pianeta altro: è finita tra case, strade, negozi, lavoro, rientro in salotti accoglienti, nel viavai della vita di Roma.  Le storie come questa – per fortuna senza la morte a chiuderle – non sono di oggi. Era il 1998, vent’anni fa, quando raccontai sulla Stampa lo stesso imbuto nella Torino dei Murazzi, di piazza Vittorio, del centro che sbiadiva verso Porta Palazzo: ragazzine di buona famiglia che, travolte dall’eroina, diventavano giocattoli personali di pusher e, se questi avevano manie di grandezza, omaggi sessuali offerti agli amici. Ricevetti lettere indignate, alcune per le “fantasie giornalistiche” (era tutto documentato): assuefatti alla tossicodipendenza come a un inciampo dei tempi, non se ne volevano vedere dolorose componenti.

Sono passati vent’anni, sono diventate più devastanti le droghe, più ramificate le organizzazioni, ma contro le cittadelle del degrado si alza soltanto, di quando in quando, la protesta dei residenti, non la coscienza diffusa che una sorte come quella di Desirée è già scritta, soltanto la fortuna la schiva. Buona parte della società si protegge allontanando da sé il peso della fragilità giovanile e le sue origini, si raggomitola in un pensiero: “Però un po’ se l’è cercata”. E soltanto il colore degli assassini attutisce quel pensiero. Invece Desirée grida che può accadere sempre, quando il proprio passo non ha autocontrollo ma nemmeno supporti.

Non la si ascolta. Non si vuole capire che è stata massacrata lentamente, non in una notte stravolta. E’ stata strumento di piacere per gli assassini, lo è ancora, da defunta, per le urla politiche. Non è soltanto la vittima di orrendi criminali (che saranno giudicati da magistrati secondo leggi scritte dal Parlamento), ma anche della banalità consueta dell’accondiscendenza: per i singoli e per le folle lo spaccio di droga è un gruppo di zombi che ciondolano intorno alla movida, che si vedono, disturbano, indignano, non è il grande miliardario traffico, che veste bene, non si vede e non disturba l’occhio, sovvenzionato da mandrie di rispettabili borghesi che si sentono fighi per il tiro di una sera e inorridiscono quando i loro fornitori spediscono nell’agonia e in una bara una storia più infelice e sperduta.

Possa Desirée, come Pamela, riposare in un aldilà di silenzio, penombra e qualche delicato ricordo, così che la sua pace sia anche non vedere e udire la danza intorno alla sua fine.