La notte in cui fummo migranti

Accadde una notte, discutendo di migranti e razzismo, diluendo l’amarezza nel gin tonic. Parlavamo e ci sentivamo imprigionati in una realtà disperante: da quante sorgenti sgorga l’ira verso lo straniero, dall’esasperazione per ombre che ciondolano sotto casa, per una disavventura personale, per cronache talora asettiche e spesso gonfiate, per imitazione, per insicurezza interiore. Tutte sorgenti raccolte e poi drogate per offrire a singole ire personali un nemico comune e contro quel nemico costruire un odio collettivo e su di esso un potere: accomunati in un unico odio sarete branco obbediente.

Non era certo di conforto prendere atto che troppi italiani, con la Storia, ignorano o vogliono ignorare anche la storia di sé, che porta dentro la beffarda osservazione scritta da Cesare Marchi: “La nostra razza è una delle più incrociate. Nei letti delle nostre remote antenate sono entrati greci, ostrogoti, visigoti, longobardi, franchi, ungheri, arabi, normanni, svevi, angioini, spagnoli, tedeschi. Se ci pungiamo con uno spillo, non esce sangue. Esce un cocktail”. L’ironia non ci consolava, perché era ed è incomprensibile come il singolo – pur d’essere branco e quindi suddito e quindi strumento dell’astuzia di qualcuno – rinunci al proprio pensiero e alla propria capacità di sentimento.

Da un lato concerti in piazze multietniche, concerti per i detenuti (e quanti sono stranieri), concerti in ricordo di Fabrizio De André con nella platea sorrisi di chi si capisce accolto. Dall’altro lato notti e giorni da cronista incontro ai barconi dei migranti, sui moli, nel centro di raccolta e smistamento di Lampedusa, nei vecchi edifici occupati, dialoghi nelle carceri, ore nel buio dello spaccio e della prostituzione. Cercavamo appiglio nelle nostre esperienze, che suonavano comunque come una colossale solitudine circondata da una mandria di gente come noi eppure inferocita e carica di rabbia, che applaude quando il Potere trascura i risvolti criminali dell’immigrazione e colpisce ogni integrazione riuscita o avviata, nelle case, nelle mense, nelle scuole. Abbatterla perché nessun suddito ritrovi la ragione e l’animo.

Tornavano in mente le immagini postate ad arte sui social: a sinistra due neri su un marciapiede, un cellulare in mano, a destra i bambini scheletriti dalla fame, e il commento: “Manteniamo ricchi ben pasciuti, mentre quelli che hanno bisogno muoiono di fame”. Foto di innocenti massacrati per fame dal disinteresse o dallo sfruttamento del mondo “evoluto” usate con cinismo per colpire quelli di loro che – grazie a missionari o volontari – sono sopravvissuti, cresciuti, fuggiti. E allora ci riempiva di sconforto la saggezza di Giovanni Arpino: “Gli italiani si ritengono buoni perché, nel momento del bisogno, quando ti vedono prostrato, sono tutti lì ad offrirti un piatto di minestra. Ma naturalmente, prima, devono abbatterti”.

Nelle parole di quella notte entrò il Festival dell’Erranza, bella iniziativa culturale che Roberto Perrotti organizza ogni anno in settembre a Piedimonte Matese (Caserta). Un pomeriggio si dibatté sullo “straniero dentro di noi”. E pensando a quel pomeriggio pensavamo a come tutti – quando siamo malati e nelle mani altrui, quando siamo tristi, depressi, lasciati da un amore, colpiti da un lutto o da un’ingiustizia – ci sentiamo profughi solitari nella folla o nel cerchio intorno. Almeno una volta nella vita siamo tutti stranieri e migranti, da qualcosa di certo o da noi stessi.

Così quella notte tristezze, ribellioni, speranze, timori di fronte a una società sempre più individualista eppure di branco, egoista, feroce, sono diventate canzone, una canzone che parte dai deserti e dal “volo dell’onda” che può travolgere il sogno o spingere al mistero di domani. Se qualcuno ha tempo, voglia, pazienza, curiosità, la trova al link

 

 

Non vogliamo insegnare o convincere. Soltanto ricordare che almeno una volta nella vita abbiamo detto o diremo “prova a metterti nei miei panni”. Di fronte al gioco al massacro degli ultimi, non costa nulla mettersi nei loro panni per una manciata di minuti.

Gualtiero Alladio
Marco Neirotti