Si spintonano sui social applausi e critiche, talora feroci, a Nadia Toffa, che ha raccontato di sé e del cancro in un libro di imminente uscita. Annunciandolo in Rete, spiega come è “riuscita a trasformare quello che tutti considerano una sfiga in un dono un’occasione, un’opportunità”. E aggiunge: “Se ci sono riuscita io ci può riuscire chiunque”. Mi permetto qualche considerazione perché è un cammino che ho percorso.
Sono incline alla benevolenza verso chi, superata la malattia, rivela d’apprezzare più in profondità la vita e tenta di “accompagnare” altri. Ma occorrono toni misurati e dolci, perché ci si rivolge a un immenso campo seminato a paura e fatica, dove fiorisce talvolta altra vita e talvolta silenzio e dolore di chi resta dopo la battaglia.
Benché personaggio dello spettacolo, non credo che Nadia Toffa voglia esibirsi, ma anzi parta da un intento altruistico: attraversate lande oscure e cattive, ma alla fine apprezzerete l’esistenza. Lo fa con l’entusiasmo dei suoi anni e l’euforia della ripresa e per questo forza il tono: “Se ci sono riuscita io ci può riuscire chiunque” può rivelarsi schiaffo a chi si abbandonerà al sonno, a chi ha accompagnato il carro di una persona cara. Soprattutto sui social si prende tutto alla lettera: “Mio marito pieno di metastasi non voleva farcela?”
Tutti vorremmo dare forza, ma in buona fede sbandiamo. Dite a un depresso: “Devi farti forza, agire, sorridere”. Vi sentite benefattori e siete bastardi, perché attribuite a lui onere e potere di fare ciò che la malattia gli sta togliendo: quella buona intenzione produce frustrazione, senso di colpa, diventa lei stessa depressiva, peggiora il suo stato.
Tutte le storie di tumore hanno qualcosa di simile, un denominatore comune, ma nessuna è uguale a un’altra. Quando mi ritrovai malato – chiedo scusa, ma tanto vale basarsi su se stessi – mi sentii dire più di una volta: “Mio cugino, mio zio, un amico ce l’ha fatta”, e io, perfido, rispondevo sorridendo: “Odio tuo cugino, tuo zio, il tuo amico: mi hanno fregato una casella nelle statistiche, ora so di avere una possibilità in meno”. Se non si prende il cancro per contagio, nemmeno per contagio si guarisce o si reagisce. “Io ce l’ho fatta e puoi farcela anche tu” suona bene nell’animo di chi ha prospettive decenti, è un pugno per chi – con quanti gli stanno accanto con amore e affanno – si rigira in un inferno dalle uscite sempre più strette.
Scriverci sopra un libro quando tutto è finito è uno splendido, puro direi, matrimonio fra egoismo e altruismo. Si celebra una fortuna e si offre una riflessione. Gigi Ghirotti, inviato della Stampa, lo fece “durante”. Nel 1972 gli fu diagnosticato un linfoma di Hodgkin. Era un’epoca in cui le cure non erano quelle di oggi, la conclusione era infausta e quasi mai i pazienti sapevano che cosa li aveva azzannati. Lui lo sapeva e iniziò un reportage sul giornale e poi in tv, divenuto libro, che incominciava così: “Ho un cancro e lo so. Parliamone insieme”. Lo fece perché Ghirotti era un giornalista, aveva narrato i dolori degli altri e pensava: “Se un giornalista incontra la morte, dialoga con lei e non lo racconta non ha capito niente del suo mestiere”.
Da allora molti – giornalisti e non – hanno scritto un libro, forse per senso di liberazione e per condividere, mostrare che la lotta non è solitaria. E non c’è niente di sbagliato nella consapevolezza di esser protagonisti di uno dei grandi terrori della vita. Ma quando si scrive ci si deve ricordare anche dell’infermiera che chiudeva la porta sempre aperta della stanza: era il garbo di non mostrare una “tomba” con le ruote che scendeva alle camere mortuarie. Per questo si deve sorvegliare ogni parola.
Ancora chiedo scusa se parlo di me. Anch’io ho pubblicato la mia storia. Quel libro non l’avrei mai scritto se avessi dovuto affidarmi dopo alla memoria che, per quanto fresca, è falsata dall’esito felice, dal carattere, dal sospiro e dal nuovo ottimismo. Da giornalista avevo seguito inconsapevolmente una deformazione professionale, prendendo appunti, rigorosamente con data e ora, appunti di eventi, sensazioni, letture, incontri e conversazioni. Uno dei primi era scherzoso. Mi avevano appena telefonato, ad Alassio, l’esito dell’esame istologico, quando incontrai una persona che non vedevo da un anno. Esordì: “Chi non muore si rivede”. Dammi il tempo, risposi. E annotai la facilità con cui diciamo cose che possono suonare diverse per l’altro.
Dopo l’ultima Pet, quella che confermava il successo dei medici dell’IRCCS di Candiolo, mi resi conto di avere già scritto un volume enorme, steso mentre tutto (paura e speranza, sofferenza e ironia, dolore dei miei cari per me e mio per loro) avveniva, non dopo. Presi a rifilarlo: c’erano frasi scritte quand’ero pieno di morfina, poetiche, ma chissà che volevano dire. Le eliminai: se non ne capivo il senso io, che cosa poteva leggerci uno sconosciuto malato?
Pronto il libro ero perplesso. Qualcuno scrive una recensione: la vittoria sul cancro. E immaginavo l’arrivo di una recidiva, di un nuovo cancro primario, la fine e il collega gentile che butta giù due righe di coccodrillo: “E’ morto di tumore… Nel… aveva raccontato: così ho vinto il cancro”. E tutti a ridere.
Perché in quella battaglia non ci sono eroi. Ci sono medici, infermieri, scienziati che hanno inventato macchine incredibili o mescolato sostanze o impugnato bisturi, ci sono parenti, amori, amici e c’è la voglia di non finire, per alcuni la fede, per altri la filosofia, per altri ancora una grande stanchezza. Non uno – ripeto – è uguale all’altro, quindi nessuno è modello a un altro. Si scrivano, dunque, le proprie disavventure, ma ricordandosi che ci si rivolge a sensibilità, coscienze, fatiche che non conosciamo nemmeno se ci siamo passati, perché hanno altre storie, altre origini, altri occhi con cui guardano il cammino accidentato e i dirupi intorno.
Sosteneva il professor Umberto Veronesi che tutti, proprio tutti, hanno alla diagnosi un moto di ribellione e rifiuto: “Perché a me?”. Mi permisi di smentirlo: era logico che un carcinoma fosse venuto ad abitare nel mio cavo orale che per una vita avevo riempito di alcol e fumo. Nei giorni peggiori, quando avevo la bocca arsa e non passava un filo d’acqua, scrissi un dialogo con la morte, non per esorcizzarla, ma per renderla il più possibile garbata e morbida. Non mi stavo arrendendo, la vedevo appostata in un angolo della stanza e cercavo d’ammansirla, di trovare un accordo dignitoso.
Per questo, senza aver letto il libro, sorrido a Nadia Toffa che, più giovane di me, sprigiona entusiasmo e sfodera il tono vincitore. Con umiltà la invito a smussarlo. L’esperienza più dura che ho scontato non è il bombardamento congiunto di radioterapia e chemioterapia. E’ stata, dopo guarito, andare ai funerali di amici che mi avevano sostenuto e temere di essere importuno, un’offesa, il simbolo di un’ingiustizia, come se un parente di chi era morto potesse gridare nel silenzio d’una chiesa: “Che fai tu qui? perché tu vivi e lui no?”. Questo deve aver presente chi vuol raccontare di sé, per questo quando torno a Candiolo per qualche allarme mi fermo a guardare chi torna dalle camere mortuarie e provo la vergogna del reduce verso caduti e dispersi.
Soltanto questo direi a Nadia Toffa: quando ti inviteranno a parlare in pubblico del libro non raccontare una vittoria, racconta che si può vivere la sofferenza, la paura guardando non solo avanti, ma intorno. Il malato prende morfina e si riposa, chi gli vule bene no. Un libro, le parole di chi ne è uscito non devono cantare un successo, ma indicare una comunione, una condivisione, la scoperta che qualcuno capisce da lontano una parte del tuo viaggio, che siamo diversi ma siamo un coro, che il cancro non è un calvario da scontare in solitudine, è un mondo meno misterioso di come appare, pur con il suo finale sconosciuto come sconosciuto è quello d’ogni giorno della vita.