Uno Stato che con un mezzo militare “pesca” uomini in mare e prospetta l’ipotesi di riconsegnarli ai carcerieri compie su vasta scala un crimine che evoca un altro crimine, a lungo subito dall’Italia: il fenomeno dei sequestri di persona ad opera della ‘ndrangheta.
Negli Anni ’70 e ’80 del secolo scorso la ‘ndrangheta finanziò le proprie attività con i riscatti dei rapimenti. Uno dei tanti ostaggi raccontò alla Squadra Mobile di essere riuscito una volta a fuggire. I custodi nemmeno lo inseguirono, soltanto gli gridarono dietro: “Corri corri e qui torni”. Arrivato a un grappolo di case il fuggiasco spiegò chi era e chiese aiuto. Quelle persone gli diedero riparo e intanto – per paura, per i benefici che ne potevano venire, per affiliazione – avvertirono i sequestratori e lo riconsegnarono.
I migranti non sono stati prelevati a casa da nessuno, è vero. Si sono messi in viaggio di loro volontà pagando denaro e fame, denaro e sangue. Arrivati in Libia però, si sono trovati nelle mani dei “briganti” e, anziché trovare l’imbarco, sono stati sequestrati in lager, definitivamente rapinati, stuprate le donne, massacrati di botte uomini e bambini, alcuni utilizzati o venduti come schiavi. Da fuggitivi sono divenuti prigionieri e ostaggi.
Un gruppo di loro viene soccorso da una nave dello Stato italiano. A questo punto il governo non si è preso in carico profughi e basta, ma persone in fuga da un sequestro collettivo. Restituirli a chi li deteneva è agire come la gente di quel grappolo di case, anzi peggio: è come se a riconsegnare l’ostaggio alla ‘ndrangheta fossero stati non compaesani ma polizia e carabinieri.