E’ morto Cesare De Michelis, presidente della Marsilio. Tg, giornali e social ne celebrano la genialità di editore, docente, critico. Mi permetto un ricordo personale (chiedendo scusa se la memoria propone episodi che riguardano me).
De Michelis portava avanti con sensibilità, coraggio e senso della sfida una convinzione: l’editoria è scoperta. Lo conobbi nel 1986. Avevo scritto un romanzo provocatorio, tenero e feroce, e chiesi un parere a Gian Antonio Cibotto, narratore e critico, che decise di proporlo a Marsilio. Era un periodo sventurato per gli esordienti: la giuria del neonato premio Calvino per inediti aveva appena ritenuto che nessun testo fosse all’altezza del riconoscimento.
Cesare De Michelis aveva tra le mani il mio lavoro e il romanzo di Cinzia Tani Sognando California. Convinto, bontà sua, che in entrambi ci fosse del buono, lanciò la sfida. Creò una collana, Primo Tempo, e pubblico i due romanzi invadendo le pagine dei giornali con lo slogan La parola ai giovani. Per reggere la visibilità dell’operazione trovò anche sponsor, due società del Gruppo Eni impegnate nel programma Invito alla Cultura, Alcantara e Semi Gran Turismo. La seconda gestiva villaggi turistici e Motel Agip. Con loro Cesare mise in piedi una tournée letteraria , offrendo spettacolo ai turisti in villeggiatura e un passatempo serale ai viaggiatori solitari nei Motel. Chiamò a presentare i due libri giornalisti e scrittori, fra loro la sempre generosa d’aiuto Fernanda Pivano, io coinvolsi Fabrizio De André.
Su questa base Cesare sferrò la polemica contro parte della critica letteraria: non ci sono i giovani perché non sapete leggere loro e il loro tempo. Tanto bella fu la tournée tanto fu pesante la risposta della critica, con stroncature di sicuro in parte convinte ma in parte sprezzanti, rivolte più all’editore ribelle che agli autori. De Michelis piombava in qualche tappa del tour – condotto dalla direttrice commerciale Concetta Fozzer col piglio della manager d’un gruppo rock – radunava tutti a cena e consolava dalle botte giornalistiche: “Ce l’hanno con me e con la collana. Andiamo avanti”. La tappa a Siena, durante una manifestazione libraria, fu un flop straordinario anche di pubblico: non venne una persona, l’omino che aprì la sala se ne andò subito per nulla incuriosito. Quando mortificato, come avessi io mancato verso l’editore, telefonai a Cesare, lui rispose: “E allora? A Siena ci sono un sacco di belle cose da vedere”.
Imposto il suo principio di ricerca e fiducia, trasferì poi titoli e autori di quel momento e successivi direttamente nella collana Romanzi e racconti. Stavo finendo il secondo libro quando seppi che quel fumatore senza tregua – soltanto Faber competeva con lui – si era sottoposto a un intervento al polmone. Alla normale concentrazione d’un autore sul suo lavoro si sostituì l’obbligo morale di consegnargli subito il testo, che trattava anche di malattia e generazioni e del quale tanto avevamo parlato. Ancora convalescente, lo lesse e mi telefonò: “Devi venire a Venezia qualche giorno”. Andai e scoprii che cosa voleva insegnarmi: mattine e pomeriggi rimasi seduto accanto a Laura Lepri – sua collaboratrice già alla nascita della collana Primo Tempo – intenta a un minuzioso editing. “Hai visto?”, disse Cesare, “Quando sembra finito è ora di ricominciare”. Quando il romanzo uscì, forse la coda della vecchia polemica ancora si faceva sentire, la critica nicchiava. Ci fece una sorpresa Carlo Bo. La sua firma smosse anche gli altri e la polemica con Marsilio sui giovani finì.
De Michelis trattava i dattiloscritti come gioielli e gli autori come figli o fratelli. Credeva nel proprio intuito (“non scopro un libro, ma un autore, magari il capolavoro sarà l’ultimo oppure capiremo alla fine che era il primo”). Stava attento alle segnalazioni, ma era rigoroso e indipendente. Mi confidò un giorno: “Hai rischiato che ti dicessi no. Sai perché? Per un errore di Cibotto: anziché dirmi devi leggerlo mi disse devi pubblicarlo. Così ho cominciato a leggere con cattiveria”.
Questo era Cesare De Michelis, il coraggioso del nuovo. E si affezionava alla persona. Nella sua casa di Venezia, tra file di scaffali, gli dissi un giorno che avrei pubblicato un noir, ancora da scrivere, con Mondadori, non perché volessi cambiare editore, ma perché su un aereo di ritorno dall’India avevo narrato la mia vita di cronaca nera e i miei incontri ad Alberto Bevilacqua e a Gian Arturo Ferrari, direttore di Segrate. E Ferrari era sbottato: mi hai raccontato un romanzo, scrivilo. Non potevo prendere la sua idea di farne una storia e spenderla altrove. Mi rispose: “Certo, capisco”. Senza polemiche e senza rivendicazioni dell’avermi aperto lui la porta dell’editoria. Ma aveva la malinconia di chi, seppur senza accuse di tradimento, vede un figlio su cui ha investito che esce di casa per sposarsi o arruolarsi o andare all’estero.
Tutto questo (pur inquinato dal parlar di me) per rendere un omaggio e abbracciare un uomo di lettere e d’affetto che ha avuto il coraggio e la fierezza di porgere la mano a chi riteneva potesse affacciarsi all’avventura del narrare. Grazie Cesare.