Era un gatto randagio, solitario e fiero della libertà. All’ora di pranzo veniva davanti a casa nostra e guardava il circo dei quattro cani che balzavano contro il cancello latrando. Rispondeva con un miagolio dignitoso, che pareva voler dire: “Vi pare il caso?”. Per due anni ci ha fatto visita ogni giorno, come un signore alla trattoria di fiducia. Non verrà più.
La prima volta che sentimmo i cani fare i pazzi senza che apparissero persone, vedemmo lui sulla stradina, immobile come in uno scatto fotografico in posa. Uscimmo e posammo un piattino con qualche crocchetta, una ciotola con acqua. Non si avvicinò. Quando fummo rientrati nel giardino, andò ad assaggiare, sempre tenendoci d’occhio.
Tornò l’indomani, l’indomani ancora e così tutti gli altri giorni, non troppo puntuale, ma senza grandi anticipi o ritardi. Guardava i cani e il loro fracasso con benevolo distacco. Aveva capito che la barriera tra lui e loro era sicura. Quando posavamo il cibo rimaneva a un metro, a modo suo ringraziava, rotolandosi sulla schiena e miagolando. Quando alzavamo la ciotola dell’acqua per metterne fresca, ci fissava attento e cambiava miagolio, forse metteva in chiaro: “Guardate che quello è mio” . E Mio gli rimase per nome.
Randagio era e randagio tornava ogni volta. Se all’una, uscendo ad “apparecchiare” la sua trattoria, non lo si vedeva, mia moglie chiamava “Mioooo!”. Arrivava col passo tranquillo, faceva due moine rotolandosi, aspettava che lei si spostasse e mangiava.
Si avvicinò il primo inverno. Non sapendo dove si cacciasse nel resto della giornata e dove dormisse, comperammo una piccola cuccia e la sistemammo contro la recinzione, di fronte al “suo tavolo”. I cani accorrevano a ogni sua venuta, sempre meno battaglieri, fino a salutare abbaiando una sola volta, poi stavano zitti a guardarlo. Soltanto il corso, gigantesco ma cucciolo, insisteva scondinzolando, come per invitarlo a giocare con lui.
Mio continuava a non lasciarsi avvicinare. Quando aprivamo il cancello per uscire con l’auto, chiudevamo tre cani in un recinto, restava libero soltanto Alek (il pezzato nella foto del profilo), pacato e dolce. Alek aveva una storia uguale e contraria a quella di Mio: colpito da infarto, il suo padrone cadde a terra e morì accanto a lui; il cane rimase per mesi solitario nel cortile deserto, un vicino gli portava ogni giorno pane secco e qualche avanzo, finché ce ne parlarono e lui trovò famiglia qui. Con il cancello aperto non cerca avventure, ma pur libero di uscire assisteva al pasto di Mio senza avvicinarsi, mentre il gatto lo sbirciava prudente. Un giorno però scattò d’improvviso, Mio s’appiattì contro il muro, ma Alek non lo guardò, fece due balzi e si fermò: vedemmo fuggire un altro randagio che veniva a contendere la ciotola. Tutelato “l’ospite”, il cane rientrò.
Da quel giorno, quando Mio arrivava, i cani si lanciavano a “fargli compagnia”, senza disturbarlo. E quando qualche altro sconosciuto puntava il suo pasto anche in sua assenza, montavano lo guardia e lo cacciavano. Il mondo animale è meno contorto del nostro e mi piaceva leggere in quel loro rapporto l’adozione a distanza, l’accoglienza dello straniero senza paura e senza pretese di gratitudine.
Pochi giorni fa Mio ha mangiato e se n’è andato tenendo sollevata una delle zampe posteriori, dove si intravvedeva un piccolo taglio. Dovevamo trovare un modo per controllare quella ferita. L’indomani però non rispose ai richiami, non venne in trattoria. E neppure l’indomani ancora. Lo cercavamo nelle vie del paese, nel boschetto dietro la casa, alla piazza della Chiesa, a quella del Cimitero, dove si raduna una colonia di randagi. Niente.
Rientrando la sera tardi, l’ha trovato sul margine della strada di casa un nostro caro amico, Luigi, patriarca di una comunità di gatti: era sdraiato a terra, incapace d’alzarsi. Benché mal ridotto, ha addentato la mano di Luigi, poi si è arreso e si lasciato sollevare, come consapevole di consegnarsi al destino. La zampa era interamente in cancrena e il Patriarca l’ha portato in piena notte dal veterinario. L’infezione, forse da morso di animale selvatico, era ovunque. Dopo un’anestesia, Mio ha spento il respiro e se n’è andato tra le stelle fredde. Non ha mai voluto prigioni e ora riposa nel giardino di Luigi, che non si è offeso per l’aggressiva autodifesa di un solitario disperato. Lì dov’è gli fanno compagnia randagi di passaggio come lui e altri gatti più casalinghi.
Qui è rimasta la sua piccola cuccia invernale. I cani dal cancello scrutano verso la strada e quando qualche altro viandante si avvicina miagolando all’angolo che era la trattoria di Mio abbaiano per cacciarlo. Senza fretta, senza frustrare questa loro fedeltà, facendoci ancora vedere con una ciotola e un piattino, dovremo lasciar capire loro che non è più il suo pasto quello da proteggere, ma quello di un altro straniero come Mio.