Sembriamo colti di sorpresa dai bulli, da arroganza e violenza come stile di vita. Era accaduto per gli omicidi di donne, liquidati uno per uno come “delitto passionale” e poi con sgomento scoperti terribile piaga .
Quando una realtà sorprende ovattiamo l’orrore inventando misure che placano la coscienza (“stiamo reagendo”) ma non entrano nelle radici. Per gli stalker è nata la diffida ad avvicinarsi, che non turba chi ha messo in conto l’ergastolo e spesso dopo aver ammazzato si costituisce o si spara. Adesso contrastiamo il bullismo proponendo bocciature immediate e l’espulsione da tutti gli istituti: tuteleremo l’immagine della scuola, proteggeremo gli altri studenti e i professori in aula, non certo in strada quando torneranno a casa.
Ogni giorno incitiamo al bullismo. Siamo indaffarati a indignarci, reclamar colpevoli, inventare castighi e non riusciamo a guardare dentro la scuola, la famiglia, il gruppo dei pari, il contesto sociale. Quasi tutto è bullismo: dal linguaggio della politica a quello dello sport, dal parcheggio al razzismo on line, dai giochi a premi ai talent, dai reality ai talk show. Una colata di disprezzo, aggressività, rivalsa, vincitore che irride il vinto.
I media – dietro l’austero orgoglio del dovere di cronaca – propongono e impongono fino alla nausea le immagini di ogni episodio di bullismo. Ciascun tg, per “arredare” la notizia di una sospensione o un atto della Procura, le rilancia a colazione, a pranzo, a cena, e se ne arrivano di nuove le abbinano, non si butta via niente.
Se in classe non ci fossero telefonini, se non ci fosse la possibilità di riprendere ed esibire, avremmo lo stesso numero di episodi? Si è bulli per ignoranza, viltà diluita nel gruppo, devianza. Ma il gesto, oggi, ha valore se è filmato e diffuso: soltanto così l’imposizione di sé è piena. Senza il video lo studente di Lucca che domanda al professore “chi comanda qui?” più che un bullo sarebbe lo scemo del villaggio. Ricordiamo la testata e le sprangate di Roberto Spada al giornalista Daniele Piervincenzi a Ostia. Spada non mostrava segni di insofferenza e sapeva d’essere ripreso: ha sfruttato l’occasione, ha deciso di colpire davanti alle telecamere – sbagliando i calcoli – per spargere via tv e via social il messaggio della sua potenza (e la magistratura gli ha rifilato il “metodo mafioso”).
Nella loro meschinità i bulli che si filmano ricalcano il “metodo mafioso”. Sono rozzi e vuoti, ma ciò non esclude che siano astuti. Il casco non è indossato per far male, bensì per rendere più scenica la minaccia e forse anche, infantilmente, per imitare i rapinatori che si muovono negli spezzoni delle telecamere di sorveglianza (il filmato non sarà una prova). Riprendere tutto comporta dei rischi, ma è un elemento irrinunciabile, altrimenti la sera l’episodio sarà già svanito, raccontarlo senza mostrarlo è fuffa.
Emerge qualcos’altro di criminale. I ragazzi sanno che non la paura di un fessacchiotto che strilla ma proprio il filmato rende innocuo il professore. Se l’adulto in cattedra lascia partire i due ceffoni che tanti invocano, quel filmato, debitamente amputato della prima parte, accuserà lui e, a meno che non spunti un “pentito”, le parti saranno ribaltate, lui sarà indagato e additato, il video rilanciato a ovunque sarà l’opposto.
Si diventa sponsor gratuiti dei bulli. Si invoca la cacciata dalle scuole: ma due agenti del Reparto Mobile che girano per la scuola costano meno di cinque volanti che nelle strade rincorrono gli espulsi. La prevenzione sarebbe sì la Polizia nelle scuole, non con i manganelli, ma a raccontare, non a insegnare regole da alcuni disprezzate in quanto tali, ma a portare vita vissuta, a dire che cosa sa fare una vittima: può uccidersi, ma può anche uccidere. Ricordo un ragazzino di seconda media a Torino. Stanco dei bulli portò a scuola la pistola del padre con il colpo in canna, la tirò fuori e disse: “Mi avete rotto”. Sotto i banchi dei duri colava liquido giallo. Furono straordinari gli uomini della Squadra Mobile, grazie alla loro calma non ci fu il morto. Anche questo deve raccontare chi ha l’esperienza e l’autorità per farlo.
Ma è inutile cercar di infilare concetti e princìpi nel vuoto se si è sponsor dell’appagamento. Il bullismo si nutre dal gruppo, dall’emulazione, dal prolungare il gesto, dalla sua continua esibizione: anche lì è l’affermazione di sé. Non si sta parlando di censura. Se un filmato testimonia una violenza lo si mostra. Ma non se ne fa un totem. Oggi si propaga l’immagine perché funziona, non perché racconta, lei dà valore alla notizia, la parola gli è confezionata intorno. Così si esalta una piccola mandria di sciagurati e si infierisce – morbosi e impietosi – sulla vittima. Se al posto di quell’insegnante ci fosse stato il figlio o il fratello di un direttore di testata l’enfasi sarebbe finita nella supplica del parente: “Smettila almeno tu di farmi passare per cretino, smettila di farmi quello che hanno fatto loro”.
Se non ci si ferma a ragionare, il prossimo passo è già scritto. I bulli che si filmano, che si rivedono in tv e sui social diventeranno i nuovi influencer. E qualche azienda avrà un’idea: “Eccoti le scarpe firmate, eccoti il giubbotto firmato, ricorda di indossarli prima dell’insulto al professore, prima del pestaggio. E raccomanda al tuo amico di inquadrare giusto”.