“Non ho più fiducia nella Giustizia”. Abbiamo tutti provato spontanea comprensione per lo strazio di una madre che ha visto condannare a “soli” quattordici anni chi ha sparato a suo figlio (poi morto) e a tre chi ha ritardato i soccorsi. E’ giusto condividerne il dolore, ma prima di cavalcarne la sfiducia è prudente riflettere sulle leggi italiane, sul processo e i suoi percorsi, su noi stessi.
Uscendo dal caso specifico, magistratura, difesa, parte civile si muovono dentro regole scritte – spesso male – dal Parlamento, si confrontano nell’ipotesi di colpevolezza e innocenza, sulla misura della responsabilità e quindi su pene che prevedono un massimo e un minimo, poi sconti, alternative alla detenzione. Questa impalcatura esiste prima che venga commesso un fatto, non è adeguabile, non è soggetta a eccezioni (salvo leggi ad personam). E’ legittimo che il sistema giudiziario non piaccia, ma non deve piacere fin da prima che venga commesso un reato e si metta in moto la macchina: può non piacere in quanto tale, come non piace il pagamento del ticket quando l’assistenza sanitaria gratuita dovrebbe essere un diritto acquisito.
La sfida tra accusa e difesa avviene di fronte a una terza parte (un giudice, tre giudici, una corte togata e popolare) dal cui convincimento e dalla cui limitata discrezionalità discende la sentenza, scritta nella “gabbia” creata dal potere legislativo. Se quella sentenza a una delle parti non garba, ricorre in Appello e poi in Cassazione: correggere l’errore, l’interpretazione degli atti, la misura della pena è possibile. Il sistema italiano non soltanto è più garantista di altri verso l’imputato, ma offre sia a lui sia al pm gli strumenti per rimediare alla decisione che si ritiene sbagliata.
Tutto questo in generale. Su un singolo caso chi è coinvolto ha una reazione calda, legata alla sorte sua e degli altri. Ma la stessa persona può trovare perfetta o aberrante la stessa sentenza: se un ventenne al suo primo reato mi rapina, mi ferisce in modo grave e si prende quattro anni per me quei quattro anni sono poco, sono ingiustizia, ma se mio figlio alla medesima età fa la medesima cosa a uno sconosciuto e si prende anche lui quattro anni, allora diventano un’enormità: l’hanno trascinato le cattive compagnie, la non-Giustizia gli amputa la vita, non gli offre possibilità di redimersi, lo chiude nella scuola del crimine.
Se è comprensibile la reazione sgomenta di una parte in causa, meno solida è quella dell’opinione pubblica. E non perché essa non abbia diritto a un commento, ma per come si forma. L’opinione pubblica assiste a uno spettacolo portandosi dentro le sue paure, le sue ire, i suoi principi: il fatto di sangue, le intercettazioni ascoltate ossessivamente in tv e in Internet, i supertestimoni, le due fazioni nei talk show. Via via ci si fa un’idea, come leggendo un giallo, non sugli atti dell’indagine ma su ciò che viene raccontato e rappresentato esaltando una parte, glissando sull’altra, scegliendo ciò che fa più presa sullo spettatore. Creatasi una convinzione, si assiste allo spettacolo-processo e si sta a vedere se si concluderà come secondo noi deve concludersi: se concorda con le aspettative la Giustizia esiste, se non concorda la Giustizia non esiste. Senza badare al fatto che in aula, come in camera di consiglio, si applicano criteri – giusti o sbagliati – diversi da quelli dello show-tv. Al processo d’Appello per il delitto di Cogne c’era pubblico che gridava “voce” come a teatro.
“La legge è uguale per tutti” è scritto dietro la Corte. Sappiamo che non è così, per un fatto oggettivo: le parti del processo sono singoli individui, ciascuno con le sue convinzioni, la sua sensibilità, la sua preparazione, la sua pignoleria, la sua onestà, la sua capacità di analisi e interpretazione. E tanto basta a far sì che nessuna vicenda sia trattata in modo uguale a un’altra. “La legge è uguale per tutti”? No. Quello è un monito, è l’obiettivo al quale sempre tendere. E l’errore umano – silenzioso o clamoroso – sarà sempre in agguato.
In Pietà contro pietà di Guido Piovene un personaggio narra d’essersi unito a una donna per pietà e d’aver poi tentato d’ucciderla. Risponde l’altro: “Il mondo è pieno di pietà. Per questo è un mondo di assassini”. Noi oggi – ostaggio dell’insicurezza sociale – riserviamo la pietà a reazioni emotive legate a come si presentano le storie attraverso i media, ma assistiamo ai processi come se dovessimo saziare un odio più che attenderci Giustizia. Per questo quando l’odio non è saziato Giustizia non è fatta.
Tornando al caso della madre, è ovvio che lei si aspetti più durezza per chi le ha tolto il figlio. Ma il cronista, il commentatore dovrebbero ricordare agli altri quello che a lei ricorda il suo legale: “Leggere le motivazioni della sentenza”. Una sentenza si discute nelle motivazioni, che possono convincerci o lasciarci stupefatti, non sull’effetto emotivo dell’aritmetica. E se le motivazioni non ci convinceranno, non avremo fiducia in quella toga, non in tutte le toghe (alle quali ci rivolgeremo al primo accenno di torto a nostro danno).
Le leggi sono spesso scritte male, con lacune, perfino assurdità, sconosciute nei veri contenuti a buona parte di quelli che le votano perché il titolo, la sintesi, l’apparenza centrano le attese dell’elettore, salvo poi mettere in difficoltà la magistratura che deve applicarle. Leggiamo: condannato e subito scarcerato. E si scaglia contro il giudice anche chi ha votato perché con quella condanna non si vada in carcere. Né può il giudice che ritiene assurda una norma modificare la pena di sua iniziativa oltre o sotto i limiti del Codice penale: sarebbe un arbitrio aberrante. Nel Dizionario di Politica (Utet), scritto con Nicola Matteucci, Norberto Bobbio spiega a fondo il sistema legislativo come impedimento di una Giustizia caso per caso priva di vincoli generali, che cancellerebbe il principio di uguaglianza davanti alla legge.
La Giustizia assoluta, quasi astratta, non esiste e non potrà mai esistere, men che meno amministrata da un cervello elettronico. Esiste quella relativa, che si muove all’interno di gabbie predefinite, con casi sempre diversi pur nella stessa fattispecie e nelle stesse regole generali e fisse. Cominceremo a rispettarla quando ne capiremo realtà e meccanismi, ma soprattutto a capire che le sentenze sono emesse “in nome del popolo italiano” e non in nome del signor Ioso Tutto seduto in poltrona davanti alla tv.