Il dolore e la morte derisi, scherniti, umiliati. Ci indignavamo di quando in quando, ora assistiamo disarmati alla consuetudine di robot perduti nell’aridità, in un vuoto assoluto nel quale non soltanto non germoglia sentimento d’alcun genere, ma dove nemmeno stimoli esterni – un libro, un film, una canzone – sembrano poter attecchire.
Distrugge ogni luce quel che è accaduto intorno e addosso all’intima e pubblica vicenda della studentessa torinese morta sotto il treno che doveva portarla al liceo musicale di Vercelli, dove avrebbe costruito il suo futuro d’arte, quindi di studio e di cultura, cioè di sentimento e condivisione. Mentre chi ancora conserva un senso di vita e morte provava dolore (ignorando la reale storia della sua fine), sui social, in un gruppo in particolare – narra l’edizione torinese del Corriere della Sera – è partita una caccia ai like fatta di battute, sbeffeggiamenti, irrisioni d’ogni sorta. E’ sufficiente citarne una riferita al fatto che senza essere smisurata neanche la futura cantante fosse magra: “Voleva solo farsi assottigliare”.
Più che indignazione e rabbia, si prova schifo per un tanfo che buca schermi di computer e telefoni: il tanfo del nulla. Possiamo inorridire, offendere(sbagliando) un’intera generazione, liberarci dall’incredulità cercando colpevoli tra famiglia, scuola, social. Ma è come far fotografie di dettagli o fotografare un paesaggio con un tappo davanti all’obiettivo. Il deserto, l’assenza di senso dell’esistere che abbiamo davanti non è l’aridità di pochi, il cinismo di alcuni, il bullismo di un branco, la coda millepiedi di una malaeducazione. E’ la tragedia di una società sempre più popolata da robot in grado di sviluppare soltanto reazioni automatiche, prive di pensiero e coscienza, prima che degli altri, di sé.
Questi ragazzi – ma non loro soltanto, tanti adulti non sono da meno – marcano un loro piccolo territorio, unica garanzia di “esserci”. I cani lo fanno urinando contro muri e steccati, alberi e vasi, quelli di piccola taglia cercando di saltellare e spruzzare in alto per apparir più possenti allo sconosciuto che passerà. Qui è lo stesso: si urina sulla tastiera per marcare muri e alberi di Internet e i like – anziché far sentire vicinanza, affetto, condivisione, comunque pensiero ed emozione – stabiliranno soltanto chi ha urinato più in alto.
E’ cinismo? Il cinismo nasce da un atteggiamento, abietto finché si vuole, ma generato da paure, frustrazioni, malanimo, è diverso dall’indifferenza e dalla cecità culturale e morale. Qui il concime pare il vuoto. Gli autori dei commenti sarcastici che usano una tragedia per esibirsi in bravate verbali sembrano incapaci di vedere la speranza di futuro (anche il proprio) e il coraggio dell’impegno così come di sentire il buio e il sangue. Vivono – dentro e fuori dalla Rete – in un mondo di immagini e dettami e condizionamenti contro cui i giovani si battevano un tempo e talora anche oggi, come accade negli Usa contro le armi. Basta pensare alla figura degli influencer, persone che a forza di like dicono agli altri che fare. Ora le aziende non aspettano più che gli influencer influenzino, ma avvertono: le donne influencer – categoria generica e senza volto -usano questo capo.
Vivono, questi robot ignari di sé, in una società di parole cariche d’odio e violenza e morte augurata con naturalezza. E la Vita e la Morte non sono l’esistenza e la sua fine, sono occasioni per esserci, per battere gli altri in presunta arguzia, spiritosaggine, perfidia o rancore ed essere approvati. Non hanno strumenti per cogliere altro: nello Spaventapasseri di Giancarlo Giordano raffigurato sotto il titolo mai vedranno un Cristo crocefisso, soltanto un legno con un cappello giallo e un panno bianco. Come i cani al parco pubblico, marcano un territorio che non è il loro illudendosi di cintarne un pezzo attraverso l’approvazione. In questa corsa non c’è spazio per percepire, “sentire” il mondo intorno, quello dei sentimenti, delle emozioni profonde, dell’ira e del ripensamento, della rivalità e dell’amicizia, della gioia e del dolore.
Quando vedranno un parente stretto in una bara qualcuno di loro scriverà sui social: “Mi criticava tutti gli abiti attillati, ora ne ha lui uno che proprio non si può allargare”. E controlleranno i like, unica speranza di fama, guadagni, pseudolavoro, magari una candidatura per sistemarsi a votar leggi senza capirle, dunque per sempre robot.
Eppure non possiamo disprezzare, abbandonare o punire senza inventarci una possibilità di spiegare loro che svuotare il cervello è come dissanguare il corpo. Per ognuno perduto nel suo nulla, salvarne uno capace di provare dolore quando la Morte s’accosterà all’amico robot e domanderà “come butta?”. E quello risponderà alzando le spalle: “Non scocciare: tu non esisti”.