Pochi giorni fa, alla presentazione del raffinato trimestrale Astigiani, c’era Nina Manfieri, compagna di giochi di Fabrizio De André quando lui e la sua famiglia erano sfollati a Revignano d’Asti e quando, dopo la guerra, tornavano per le vacanze estive. Davanti al pubblico ha anticipato alcuni dei ricordi che ha affidato a un articolo della rivista sulle radici di Fabrizio. E l’eleganza delle sue parole è stata una ventata, un volo, di bella memoria, quella la cui profondità e insieme lievità si va perdendo nei tempi in cui la memoria è un gigantesco archivio di selfie.
E’ dall’uscita di Ho visto Nina volare (1996) e poi dalla morte di De André che con dolcezza e pazienza lei risponde a interviste, ricerche di biografi, domande di appassionati. Lo fa con una delicata pienezza di ambiente, momento storico, realtà di campagna che danno ai suoi racconti uno spessore culturale anziché il buffetto dell’aneddoto. Marcel Proust scrisse: “Il ricordo di una certa immagine non è che il rimpianto di un certo minuto; e le case, le strade, i viali sono fuggitivi, ahimè, come gli anni”. De André accoglieva Proust nel dire che “la nostalgia è nostalgia di se stessi”. Nina no: nella sua memoria nulla è rimpianto e nulla è in fuga, tutto è scolpito e tutto porta in sé l’essenza di quel giorno o quell’anno, i contorni e lo sfondo e il futuro che fa capolino.
Nel caso di De André tanti conservano un ricordo personale: quel che avvenne mentre si ascoltava una canzone, quel che fece mutare indirizzi del pensiero, oppure un concerto, una frase dal palco, l’incontro per un autografo, una chiacchierata, una cena, una riflessione. Nina, identificata con una canzone, offre ben altro che gli istanti dipinti in musica, non porge un album fotografico e narrativo dell’infanzia – di lui o propria – o un attimo ispiratore d’un brano: attraverso stalle e aerei bombardieri, vendemmie e giochi e liti, dona il racconto d’un tempo lungo, di una società colpita, dolente e capace di innalzare piccole gioie nella quale Fabrizio formò il suo animo curioso, altruista, anarchico, poetico.
Ascoltandola parlare degli Anni ’40 e ’50, ci si aspetta che vada avanti, che arrivi a oggi, alla casa proprio adiacente alla Cascina dell’Orto dove sempre è rimasta a vivere, dove si è sposata, dove ha cresciuto i due figli, dove si raccoglie la famiglia – unita, bella e generosa – e dove essere nonna è l’esser nonna del presente senza perdere il filo con il tempo in cui lei era una nipotina da consolare e magari bendare per l’irruenza litigiosa di “Bicio” De André.
Viviamo di selfie. Ci regalano una cravatta, facciamo una foto mentre spunta dal pacchetto e la infiliamo in Facebook: i valori, la bellezza del dono sono lì, nello scatto fotografico, poi la indossiamo senza pensare più che cosa porta sotto i colori e dentro il tessuto. Andiamo a Parigi e ci facciamo un selfie di fronte al Bataclan: quel che resterà è un’immagine di noi davanti a un luogo riconoscibile se nel riquadro c’è anche una scritta; ma in quel riquadro non ci sono la violenza che è passata e la tenacia della vita che non si arrende. In ogni ricordo di Nina c’è l’anima del ricordo, c’è il movimento di un periodo della Storia e della storia di persone.
Ecco perché ascoltandola si scopre quella parte di vita che genera il Fabrizio di poi. Ecco perché ascoltandola il ritorno di “Bicio” a Revignano nel 1997 non è soltanto un lampo di nostalgia d’un uomo famoso, bensì il ritratto di un intellettuale consapevole della propria storia. Ma soprattutto ecco perché – quando tutti chiediamo a lei di rievocare Fabrizio – scatta questo impulso ad abbracciare con affetto Nina (qui sopra l’abbraccio in una foto di Giulio Morra) e farla volare fuori dalla canzone a mostrarci – con la sua elegante riservatezza – quanto chi ci appare testimone sia garbato protagonista e quanto profonda, ricca e illuminante sia la memoria quando la si porge con delicata saggezza.