Ha un senso il rancore degli assassini verso le vittime: sono più vive di loro. Nell’anniversario del rapimento di Aldo Moro, del suo omicidio, del massacro della scorta, nel tuono lungo delle celebrazioni, si alzano voci spietate di ombre, accarezzate talora da compiacimenti intellettuali. “Fare la vittima è diventato un mestiere”, dice Barbara Balzerani, incapace di capire che senza quei morti lei non esisterebbe.
Qui non si contesta la nuova vita dei terroristi e nemmeno il fatto che scrivano, raccontino, spieghino. Censurare interviste sarebbe negarci una possibilità di scoprire il vuoto, il mistero e prevenire orrori. Si vuole soltanto riflettere sul modo di vivere il passato. E chiedo venia per la citazione personale, il meno possibile viziata dall’aver pianto un Carlo Casalegno conosciuto da bambino, dall’aver atteso ogni notte mio padre che rientrava dal giornale con lui e con Arrigo Levi, accompagnati da un autista e una scorta che li consegnavano alla notte di casa uno dopo l’altro.
Negli Anni di piombo – raccolti nell’opera di Enzo Sciavolino in testa a questo articolo – sostenni con convinzione e con l’unico supporto dello psichiatra Mario De Caro, che, dopo Renato Curcio e le sue azioni, una parte dei terroristi si isolava dal mondo reale in una impossibile e controproducente rivolta, e che l’altra parte era composta da tanto tragici quanto banali serial killer comuni, bardati con il mantello della lotta politica: dominati soprattutto dal senso di onnipotenza su altre vite. Credendosi nobilitati e innalzati dall’ideologia, seguivano una spinta di piacere, lenimento e autoaffermazione: “Uccidere somiglia a un prurito che non riesci mai a placare del tutto” (Peter Swanson).
I killer del terrorismo che celebravano se stessi con i proiettili contro figure di rilievo e altre ignote e con le rivendicazioni disseminate nelle cabine telefoniche, vedevano nel terrore diffuso la loro affermazione individuale e non certo di classe, volutamente inconsapevoli della sconfitta, del fatto che quella rivoluzione con quei bersagli era vana e impossibile, non una risposta ma un prosieguo delle stragi di stato: colpivano, minacciavano, terrorizzavano figure di spicco (della libertà, oltre tutto) e poveri servitori del popolo, parti di società che detestavano lo stesso potere detestato dagli assassini ma che a quel potere, giusto o sbagliato che fosse, si univano per salvarsi e salvare ciò che ancora stavano vivendo. Perché la società viveva: nell’ira e nella rassegnazione, nella contestazione e nella reazione, nel conflitto economico e industriale, nelle ambizioni e nelle rinunce, ma viveva. Loro si sentivano vivi ammazzando, l’ebbrezza di chiamare un nome, aspettare che l’uomo si voltasse e scandire la sua fine. Con l’animo delirante che la cronaca nera ha poi raccontato per Donato Bilancia, Michele Profeta e altri serial killer.
Questa non è una provocazione, è un pensiero che nasce guardando il dopo, i tanti anni dopo, quando i colpevoli (anche loro degni di pietas) dalla fuga rivendicano libertà, quando nella libertà si fanno intervistare o fanno dibattiti (mentre altri loro compagni recuperano il vero vivere nel silenzio). Barbara Balzerani – andando da protagonista a presentare un libro – nutre rancore per le vittime, dice che dell’esser vittime hanno fatto “un mestiere”. Su di lei c’era il buio, su di loro ricorrenze e ricordi e commozioni. Pare invidiosa, quasi dicesse “tutto per cosa? perché i personaggi fossero loro?”. Scrisse Hemingway: “Quel che si prova a uccidere non si può dividere con nessuno”. Ma quel che si prova a soffrire sì. Chiamarlo un “mestiere” è un urlo di rabbiosa sconfitta d’ogni propria azione. Lo dimostra un assassino comune, un rapinatore inventatosi politico, Cesare Battisti, che dice di temere l’estradizione per paura che gli accada qualcosa nelle carceri italiane: il killer si piange quale possibile vittima.
“Né il sole né la morte si possono guardare fissamente”, ammoniva La Rochefoucauld. E i terroristi non riescono a fissare le vite che hanno tolto, a guardarle come tali, perché della vita hanno paura e ogni morte sempre racconta una vita. Per questo guardano con astio la luce che quelle esistenze hanno dato ai parenti, alle loro storie, a ciò che avevano detto, pensato, compiuto. Nella spudoratezza mesta e orgogliosa degli assassini e dei loro complici non ci sono ideali, convinzioni o semplici ostinazioni. C’è il tormento di avere colpendo sfiorato l’onnipotenza ed essere rimasti nessuno. Quando li cercano, li intervistano, talora li coccolano per sentirsi intellettuali democratici, sentono altre ombre ripetere: sei qui grazie alla morte di innocenti, sei qui perché esistono i morti e quando uscirai da questa stanza di nuovo sarai nessuno, tornerai ad esser morto senza essere vittima.