Donne “disperse” a casa loro, in un presente azzoppato e in un futuro di nebbia gelata. Sono madri e mogli, sorelle e figlie dei soldati italiani dispersi – loro sì nel senso bellico e tecnico – durante la ritirata di Russia. “Non so se piangerlo vivo o pregarlo morto”, è la sanguinante sintesi che per settant’anni ha accompagnato Milly, la quale prima di morire ha chiesto d’essere congiunta nella bara al marito Ennio portando con sé le lettere dal fronte.
La Storia e la Letteratura hanno indagato e narrato quel ramo di guerra sepolto dal gelo o dissolto nelle steppe, nei campi di prigionia, in fosse improvvisate, nomi e corpi svaniti, ossa e piastrine recuperati. Paola Scola, giornalista della Stampa – già autrice di Eroi nel fango e In prima fila – scava nei destini sconvolti, squarciati o evaporati in quella parola vaga e atroce, disperso. Lo fa con un libro, Lo aspetto ancora con disperata speranza (arabAFenice editore), pulsante di documenti, lettere, immagini, testimonianze. Ma lo fa da un altro punto di vista: quello di chi aspetta ostinata o arresa.
E’ la “guerra delle donne”, vissuta aggrappandosi alle ultime lettere e scontando il buio delle notizie, covando la fiducia e soffocando lo sconforto, accudendo alla cascina, al negozio, alla casa fra rastrellamenti nazifascisti e incursioni partigiane, soprattutto crescendo figli – talora nati dopo la partenza del padre – per tutto restituire all’improbabile riunificazione della famiglia.
Se lontano, in luoghi che alcune nemmeno sapevano dove fossero, erano in agguato proiettili, bombe, carri armati e gelo, nel narrare di oggi e da questa lontananza dal fronte, era in agguato la retorica dell’eroismo silenzioso, del coraggio femminile, della famiglia: Paola Scola ne è rimasta indenne, porgendo dolore trattenuto e tenacia con la concretezza della cronaca e il rigore della testimonianza storica, fusi in una narrazione asciutta eppure delicata.
Storie di famiglie, ricordi, mostrine ritrovate, lapidi, cappelli d’alpino adagiati su cuscini, lettere partite e lettere arrivate offrono un illusorio corpo all’uomo disperso. Ecco l’attesa del postino, fino a riconoscerne il passo, ecco il pezzo di carta che significa “è vivo”, ma il calendario scarnifica la fiducia. E allora non voler chiedere la dichiarazione di morte presunta, rifiutare l’idea di un nuovo compagno (e nuovo padre per i figli piccoli) sono grida di una vita che avanza seppur paralizzata nel giorno della partenza di lui.
Quel microcosmo di parole affidate alla posta militare diviene specchio del mondo quando lui racconta d’una madre russa con due figli al fronte, quindi suoi nemici, che pure nell’isba bada a lui e ai suoi compagni. Ed è specchio del futuro sospeso quando il postino passa e non si ferma. Allora Mògna Madlinìn, zia Maddalena, sta ad aspettare il figlio Gioli impastando tome per lui che le amava, seduta a uno sgangherato tavolino di legno dal quale può tenere d’occhio l’ingresso del portico. Per dieci anni. Finché tornando dai campi la trovano morta, un sorriso sulle labbra, nel quale la famiglia vede il sorriso dell’incontro fra due anime.
Paola Scola non lascia vagare su uno sfondo confuso le testimonianze. Le fa ospitare da un quadro veloce ma completo di ciò che furono campagna e ritirata di Russia (senza scordare il fronte d’Africa). Ai campi di prigionia senza ritorno corrisponde una chiave della porta d’ingresso lasciata “dove lui sa”, al fischio delle tradotte risponde la lettera che cercando di celare l’ansia annuncia le voci di prossima partenza. La visuale femminile compenetra quella degli uomini in viaggio o perduti nella neve quando le parole dell’alpino per rassicurare lasciano spazio allo sfogo dolente, alla confessione della realtà, al bisogno di sostegno come avveniva con naturalezza quando ci si coricava accanto, ci si svegliava accanto e tutto si condivideva. Ora si condivide con un po’ d’inchiostro la speranza per i figli che cresceranno e che quasi di certo il padre non vedrà crescere.
Quando anche il filo epistolare svanisce si va alla stazione, si domandano notizie a chi è tornato. E spesso questo tace, per pietà, per non essere lui a seppellire speranze vane, oppure accenna all’istante in cui si divisero sul campo di battaglia, in quello di prigionia, lasciando uno spiraglio al dubbio. Con il peso terribile raccontato da Mario Rigoni Stern: “Cosa potevo dire a quelli che venivano a chiedermi dei loro congiunti? Perché io ero rimasto vivo e loro no? Avevo quasi vergogna a parlare con loro”.