Di Lucio Dalla non si celebra un anniversario. Sarebbe come prendere i versi di Canzone – “va per le strade tra la gente / diglielo veramente” – e chiuderli fra mattoni. Si coglie una data per cantare insieme un po’ più forte, ma non troppo per non urtare quella sua educazione, quel sorriso mai sprecato, l’attenzione profonda e vera.
Per parlare dell’artista c’è abbondanza di critici musicali così come di appassionati del suo lavoro. C’erano anche quando Torino organizzò, sull’onda di quello del Libro, il primo Salone della Musica. Agli specialisti spettava raccontarlo, altri cronisti erano viandanti sfaccendati. Ero uno di quelli e trascorsi la giornata con Lucio che si muoveva non come uno dei protagonisti, ma come uno fra le migliaia di visitatori. In coda al bar, appoggiati a una parete d’una sala troppo piena, annoiati ai blabla di routine, curioso d’improvviso il suo spirito alle parole d’una star che si regalava a un incontro o si dosava a una “lezione”.
Quella giornata finì in un ristorante del centro di Torino. Cena che andò affollandosi. C’era la cultura, con Alberto Sinigaglia, costante pilastro e perno delle pagine culturali della Stampa, c’era – andando a memoria – chi capiva di musica come Gabriele Ferraris (subito dopo aver finito di scrivere), c’era la Città rappresentata dal sindaco Valentino Castellani. C’erano discorsi che s’incrociavano, ora seri ora lievi e tutti Dalla seguiva.
Ma, seduti accanto, di altro chiedeva. D’una ragazza uccisa nell’Astigiano un giorno o due prima, caduta in qualche tranello mentre a vent’anni cercava un lavoro come babysitter. Di un travagliato cammino e un’incerta sorte del decreto legge che avrebbe bloccato un’onda di sfratti. Di un vescovo olandese che in qualche modo difendeva il furto per fame.
Non è buona memoria. E’ un vecchio taccuino grigio con un elastico nero, riempito subito dopo, appena salito in auto, e mai rovesciato in articolo. Ma era quello il Salone della Musica: non donne e uomini con la mano anchilosata dagli autografi, era un grande uomo di musica e parole, che non alto di statura riusciva a comprendere in uno sguardo il mondo intorno, il mondo che viveva e sorrideva e faticava e moriva.
Molto tempo dopo, un anno prima della sua morte, mi ritrovai in gennaio per conto del giornale nel nel centro di Bologna a parlare con il papà e la mamma di un neonato o poco più morto di freddo: senza casa, indagati, assediati dai media, erano disarmati, disorientati, diffidenti, incattiviti, esausti per la carica dei cronisti. Era la Piazza Grande che nella voce di Lucio Dalla si colmava di echi romantici e di dolce e dignitosa rivendicazione. La rivendicazione di rispetto, o almeno di vita, con cui discorrevo adesso era disperata e rabbiosa. Volevo cercare Lucio, chiedere non un po’ di parole che arricchiscono con un nome celebre un articolo, bensì un conforto per riuscire a scrivere quegli occhi, quel senso di colpa respinto come un demone dalla loro fragilità.
Pensai a lui che chiedeva della babysitter, che chiedeva col cuore e non per bere una storia a cena, pensai agli sfratti, pensai a quando quella sera un amico gli annunciò qualcosa per telefono e lui mi chiese di chiamare la redazione per sapere di più. Chiedeva con il garbo e il passo d’un ospite inatteso. Aspettava con apprensione che rispondessero. E quando i colleghi mi diedero le notizie da fornirgli, mi fece richiamare ancora: per ringraziare e chiedere scusa da parte sua. Pensando a questo, quel pomeriggio in Piazza Grande non gli telefonai: avrei imposto a lui un ruolo, avrei coperto la loro disgraziata debolezza e disperazione con un luogo comune che non poteva appartenergli. Grazie Lucio. Anche da parte loro, credo.