Quello di Latina diverrà presto un episodio da ricordare quando si discuterà del prossimo. Sappiamo che la mattanza di donne e figli non si ferma con una legge, al massimo si rinvia disarmando un uomo quando quell’uomo cammina portandosi dentro la Morte.
Sgomenti di fronte al sangue, lo siamo ancor di più perché abbiamo vissuto tante speranze insieme: la salvezza della donna ferita, l’essere in tempo per risparmiare le due piccole vittime che invece erano già morte durante le trattative con l’omicida, la cattura e la risposta a qualche “perché”. A Latina aspettavamo il blitz e la vittoria del Bene, invece l’assassino ha portato via tutto quel che è riuscito a portar via, anche se stesso.
Io avrei fatto così… io avrei tentato subito l’irruzione … io non li avrei lasciati soli… Siamo convinti e in buona fede quando azzardiamo ipotesi che servono soprattutto a trovare colpe e colpevoli, così da rendere se non più lieve almeno più comprensibile un orrore. Ma se anche trovassimo colpe e colpevoli non troveremmo né medicine né riposo per la Morte che cancella i problemi, spazza via l’angoscia, più che “punire” fa evaporare chi secondo un’anima dilaniata è causa della sua sofferenza. Salvo poi agitarsi in un vuoto insostenibile e voler svanire come le proprie vittime.
Questo di Latina ci ha trafitti più di altri casi perché lui era un carabiniere, l’uomo che protegge. E lei aveva già avvertito, proprio nei luoghi demandati alla protezione, aveva chiesto aiuto perché si fermasse il rosicchiare sordo della Morte nella mente di lui. Non c’è motivo di credere che nessuno si sia assunto la fatica di parlargli, lenirne la fiamma e si sia sentito da lui rassicurare. Un caso vero, simile a questo, l’ha narrato Adriana Pannitteri in un bel romanzo, Cronaca di un delitto annunciato (L’Asino d’oro edizioni), protagonista un carabiniere che si racconta a una giornalista.
Per sentir meno l’ineluttabilità, proviamo: potevano togliergli l’arma. E’ giusto, anche se sappiamo che esistono coltelli e gas, mazze e mani. Diciamo: dovevano vietargli di avvicinarsi. E’ giusto, anche se sappiamo che se io sono la Morte che avanza cieca non ascolto ordinanze di divieto, se voglio uccidere non mi preoccupo dell’ammenda per guida senza patente. Sappiamo che l’avrebbe fatto comunque, con più fatica e dolore, e sappiamo che l’unico modo per fermarlo – lui come gli altri – era rinchiuderlo in un luogo in grado di scavarne i problemi.
Appena pensato questo, ci si obietta da soli: non si possono riaprire immensi manicomi giudiziari e riempirli di chiunque minacci. E’ vero, ma è altrettanto vero che questa società non ha gli strumenti e le persone per sorvegliare la schiera di coloro che nella Fine degli altri e spesso anche nella propria vedono il placarsi delle tormente mentali. Ed è qui il virus che, nonostante manifesti, dibattiti, impegno, si aggira ovunque: la donna non tanto quale oggetto, ma quale possesso e orgoglio e insieme quale unico sostegno alla propria debolezza (anche se non lo si ammette), i figli non come esplosione d’amore da condividere per il loro futuro, ma come esclusivo simbolo di sé e del proprio futuro. E, infine, la Morte come spugna, come una goccia di morfina, come una carta da voltare, benché sia l’ultima del mazzo. Non si uccide per cattiveria, si uccide perché la rivoltellata è l’ultima carta, o questa si crede che sia quando dentro e intorno, nella quotidianità, non si parla più di vita ma soltanto di Morte, la si augura per una disputa politica, la si raffigura negli stadi, la si maneggia come un giocattolo nella tv del pomeriggio e della sera. Senza la sacralità o almeno il mistero che le appartengono.