Chiedo perdono se racconto in prima persona per aggiungere ancora due pensieri su Fabrizio De André, del quale è oggi il compleanno. E’ per l’antefatto di due sue frasi che raccontano come viveva la fama e l’esser diventato un mito.
Nel 1982 mi arrivò una telefonata dalla Ricordi. Il dottor Diego Andò disse: “Stiamo preparando una serie di dischi da distribuire in edicola, si chiamerà Profili musicali, antologie di grandi nomi accompagnate da un fascicolo con testi, accordi, foto e con pagine introduttive che raccontano, interpretano, insomma accompagnano il pubblico all’artista. Fabrizio De André ci ha fatto il suo nome. Le va di scriverlo?”. Lo dico 35 anni dopo con sincerità: stavo per rispondere “non credo di essere in grado”. Chiesi soltanto: “Possiamo vederci?”. E andai alla Ricordi.
Scrissi il testo, narrando come apparivano a me il poeta e l’uomo, cercando di interpretare i meccanismi per cui tante persone di età diversa non soltanto si riconoscevano nel suo canto ma avevano “bisogno” dei suoi contenuti, del suo modo di leggere il mondo, della lievità e durezza delle sue parole. Poi andammo io e Marina, mia moglie, a Milano, nella casa della famiglia di Dori. Volevo che lo leggesse prima della consegna, non volevo perdere Fabrizio – lui che scolpiva ogni parola – per una svista, per un sinonimo, per un verbo al posto sbagliato.
Ci mettemmo a un tavolo. Con noi c’era Carlo Facchini, compagno di Cristiano nei Tempi duri . Io e Carlo ci guardavamo in silenzio. Fabrizio leggeva, alzava gli occhi serissimo, poi sorrideva, poi tornava a leggere. Aveva una penna in mano e non la usava. Alla fine disse: “Bene, ma ci sono due cose sulle quali riassumi molto, forse è meglio essere più precisi”. Scendemmo a mangiare in trattoria, a cento metri da casa. A tavola non chiesi di quelle due cose. Parlammo di Sand Creek, del generale di vent’anni che in realtà era il riservista Chivington. Poi della musica. E mentre Carlo scriveva accorgimenti degli accordi su un foglietto di quelli che l’oste usava per i conti, Fabrizio ritirò fuori il testo e cominciò a scrivere.
A fine serata mi diede quel pezzo di carta dicendo: “Vedi un po’ se così è chiaro, perché la gente non fraintenda”. Due concetti. Il primo l’aveva già espresso più volte, ma sembrava averlo riempito: “Siamo gente normale che fa un mestiere eccezionale, disponiamo di un mezzo, di uno strumento, chiamalo tram se vuoi, che ci consente di arrivare a un pubblico molto più ampio, molto più eterogeneo di quello cui si arriva con altre forme espressive. E questa è una responsabilità non indifferente”.
Il secondo era sul fatto d’essere un mito: “I miti sono alimentati da carenza di fiducia in se stessi e da eccesso di fantasia. Poi incontri la persona e quasi sempre di fronte alla realtà la fantasia si ridimensiona, il mito si sgonfia, crolla e allora può verificarsi il recupero di una maggiore fiducia in se stessi. Solo in questo senso il mito può essere socialmente utile”.
Tornando a casa, Marina mi domandò: “Sei silenzioso, qualcosa non va? Non era d’accordo con il testo?”. Era d’accordo, ma con quelle annotazioni mi aveva svelato altro: neanche volendo, neanche mettendoti d’impegno, Fabrizio, sgonfierai il mito.