Fabrizio De André meritava l’impegno che ci ha messo chi ha lavorato a questo film, impegno che si avverte superiore alla sola serietà professionale. Fabrizio però non meritava che l’intensità umana e poetica della sua vita e del suo sentire fossero frantumati, come è accaduto in televisione, tra pesanti coriandoli di pubblicità e un taglio brusco, non armonico come in Volta la carta, che ha spazzato via i titoli di coda per far irrompere Bruno Vespa e i suoi ospiti. Non si può guardare un uomo sequestrato che scrive al padre, su imposizione, una lettera che non è sua e ascoltare dopo lo spot la canzone che dice “una lettera vera di notte falsa di giorno”. E, quando vuoi andare incontro alle emozioni di chi ha amato una persona per quel che ha cantato, non puoi cacciare via quella persona a pedate dallo schermo: i titoli di coda, con la loro musica o i loro silenzi, servono anche per mandare giù quello che hai bevuto, condiviso e sofferto.
Nessuno si fidi troppo degli appunti di chi guarda una vita rappresentata in tre ore pensando a quel che lui ricorda: il suo sarà sempre un gioco truccato senza saperlo, sempre in attesa di riconoscere a ogni passo i sentimenti cui è ancorato. Sulla ricostruzione, sul personaggio che emerge dal racconto potremo discutere in eterno senza mai trovarci d’accordo, quel che è certo è che l’ha approvato Dori, che anzi è stata presente sul set e della quale (se mi legge sa con quale affetto lo dico) pare di tanto in tanto di scorgere una sorta di supervisione, talora legittimamente “protettiva” del “suo” Fabrizio, talora fieramente coraggiosa nell’offrirlo disarmato. Un giorno criticai il fatto che sotto l’ombrello del tributo ci fosse chi approfittava del nome di Faber per farsi ascoltare. Lei troncò il discorso: “Fabrizio è di tutti”.
Nel lavoro del regista Luca Facchini e degli sceneggiatori, del protagonista Luca Marinelli e degli altri attori uno spettatore inevitabilmente prevenuto come chi scrive ha visto uno sforzo profondo per “raccontare” l’uomo e l’artista, la famiglia, gli altri personaggi, uno sforzo del tutto diverso da quello dell’agiografia o del documento. Di questo a tutti loro va dato atto. Hanno lavorato con affetto per far vivere ricchezza di cuore e tensioni interiori di De André, sbandi e incertezze, musica, parola, amore, amicizia, e la società intorno, la violenza del sequestro e la distinzione tra mandanti e manovali, la non inconciliabile spaccatura tra l’origine altoborghese e la vicinanza agli umili. Molto di questo, in tv, è stato diradato dalle interruzioni. Valeva la pena un gesto rivoluzionario che a lui avrebbe fatto scoccare un’occhiata a chi gli era accanto, come per dire: “Vedi che a volte…”. Quel gesto era annunciare: “Concentreremo la pubblicità in due blocchi, all’inizio e alla fine”.
Ma, se anche ha un senso tutto quanto appena scritto, che dire della narrazione in sé? Regista, attori e sceneggiatori non si sono accontentati di raccogliere documenti e testimonianze, di ricostruire e rappresentare, si percepisce – Marinelli in testa – che hanno voluto “sentire” la possente e delicata materia che maneggiavano. La somiglianza fisica, le stesse posture, gli sguardi, il sorriso, il volto stupito o pensoso non erano puro studio. Marinelli ha detto bene: “Non l’ho imitato”. Ha provato a “esserlo” e ci è in gran parte riuscito.
Ma è la scaletta, la scelta degli elementi dominanti a lasciare sospeso chi ci ha bevuto uno o dieci whisky insieme come chi ha bevuto l’arte sua. Ci sono dei “troppo vuoti” e dei “troppo pieni”. E questo probabilmente perché destinataria era la tv, perché il prodotto – pur passando fuggente per il cinema – era nelle due puntate, era nella scia delle fiction su Modugno (“fu lui con L’uomo in frak a rivelare che la canzone poteva dire altro”) o Gaetano. E questo mondo pare avere regole, tempi, ritmi, paracarri fissi. Ecco allora che filo conduttore – pur tra angiporto e Villa Paradiso, notti al bar con Tenco e notti al gelo dove il corpo finisce in una catena legata a un albero – non può che essere il cammino sentimentale di De André. Non che non ci sia legame, ma nel narrare a milioni di persone che portano dentro parole e musica, filosofia e voce, l’effetto è di una bilancia non in pari.
La “serie” (per quanto breve) televisiva impone di caratterizzare al massimo il personaggio. Se Marinelli di suo non è esagerato, diventa prigioniera d’un simbolo la figura del tabagista furibondo (ineccepibile la crisi durante il sequestro) che abbraccia la sua donna tra le lenzuola con la sigaretta fra le dita. L’avrà anche fatto, ma nella fiction diventa quasi macchietta. E’ vero, Fabrizio ne accendeva una con l’altra, fumava sul palco e le infilava in cima al manico della chitarra per non buttarle a terra. Ma l’ho visto rispettare luoghi e persone, stare in una chiesa o in una libreria senza uscire ad accendere.
I concerti erano una sfida difficile. E anche qui l’attore ha vinto. Ma Fabrizio uomo? E Fabrizio alle prove? E’ l’artista più umile con il quale abbiano lavorato i tecnici: disponibile, perfino obbediente, allegro, senza ancora la tensione del palco imminente, pronto a ripetere finché i suoni non siano perfetti, poi seduto in ultima fila per controllare: tutti, anche i più sfortunati, devono sentire.
Le immagini ci mostrano Fabrizio creativo, che accenna versi appena scritti. Mai, o forse un paio di volte, Fabrizio strapieno di libri, ma quella cultura e quell’entrare negli animi da qualche parte venivano (“Sono un buon Bignami”, si schermì parlando del lavoro sull’Antologia di Spoon River“). Incrociamo la figura del poeta Riccardo Mannerini, ma non il Fabrizio capace di circondarsi di coautori e collaboratori. Mi disse a Carimate, dove registrava L’indiano: “Accanto a un pilota con migliaia di ore di volo ce ne sta bene uno con dieci decimi di vista”. Certe presenze, pur accennate, non avrebbero tolto nulla alla sua grandezza.
Un’osservazione ancora. Il rapporto con il padre: più che un conflitto, una sfida. Ennio Fantastichini ben incarna secondo i momenti, rigore, ansie, amore, ma a volte Giuseppe De André appare un riccone delle commedie Anni ’70-80. Era un signore, allievo di Benedetto Croce, professore di Filosofia, rigido e tenero. Fantastichini rispecchia bene la tenerezza. Ricordo quando il Professore mi chiese: “Qual è la cosa migliore che Fabrizio ha scritto fino ad ora?”. Ero incapace di rispondere, non sapevo scegliere fra Tutti morimmo a stento o Non al denaro non all’amore né al cielo o La buona novella, mi pareva impossibile. E’ La buona novella, disse lui, e spiegò perché con un tragitto musicale, letterario, religioso, filosofico e, soprattutto, con una fierezza insieme intellettuale e paterna.
Tutti hanno dato molto, ma in una gabbia predestinata. Sarebbe stato un lavoro più libero e forte senza altro destino che il grande schermo. Questo s’avverte nel finale, che riduce aspirazioni e amori, scatti e dolcezze, poesia e sorriso di Fabrizio a romanzetto che si chiude con un matrimonio e con il cast in platea che guarda e ascolta l’originale. Sarebbe senz’altro stato cupo e sgradevole chiudere con la morte e il funerale, ma una possibile ultima scena l’aveva già scritta lui: dal palco, prima dei titoli coda, Fabrizio che ci salutava con Anime salve e quel verso profetico: “Mi sono visto di spalle che partivo”.