I crisantemi rossi di Amleto

Ad Amleto che domanda oggi rispondono voci dolci o nemiche, incerte o disperate, impietose o fluttuanti. Rendono vano ogni lamento: “Più mi compatisco più mi paro meschino!”. E frantumano non soltanto la propria ma anche l’altrui pietà: “A voi tutti, a voi compassionevoli: / Imbecilli!”.

Sfida l’essere e l’apparenza dell’essere Matteo Bona, 21 anni, astigiano, studente universitario, autore di una prima silloge nel 2015 (pluripremiata). Lo fa con Il senso del nulla (editrice Montedit): poesie e racconti indagano lo scontro tra l’orgogliosa rivendicazione dell’Io e lo smarrimento in un ineluttabile vuoto. Bona canta l’angoscia: “Anima mia, perché sei tanto / Piccola? Perché m’appari / Un punticino nascosto da tutta questa / Carne?”. E insieme il riscatto: “Quest’anima rifiorita / S’appresta a giocar / Come bambini / Con le dita”.

Alternata ai versi, la prosa racconta l’amore assurdo della bell’anima che si promette a un cuore bruto e autoreferenziale, pronto – per lasciarla prima dell’altare – a sceglier la via del nulla. Narra il dimenarsi d’un marito nell’odio senza ragione che ha posto quale unico fondamento del suo legame con la remissiva donna dolce tra i suoi fiori, fino al gesto che deve coronare e rendere concreto il niente di lui, ripiombando tutto nel buio.

Con minuzia e distacco da psicologo, eppure insieme con partecipe sofferenza, l’autore segue il cammino dell’Insonnia, vita sospesa senza che la sospensione sia pace, in un affanno di gesti che salvino dal divenir disperato fantasma, ma disperazione verrà, portandosi dentro il bisogno liberatorio della Morte e l’indolente incapacità a darsela. Indaga l’uomo che prepara, con amore maniacale, lo sgabello e il nodo scorsoio (“tutto il significato della vita giocava sulla punta dei suoi piedi”) ed è trafitto da un’assenza di passato e un’impalpabile gloria della fine, affidata al suo nordico nome, che tradotto è una negazione, è il “nessuno” come Nessuno fu l’Ulisse di Omero.

Con padronanza della parola, Bona ricorre al potere evocativo dei vocaboli, dei nomi stessi (dall’eresia alla distruzione), fa scorrere come linfa poetica o narrativa la filosofia (da Platone fino a Severino passando inesorabilmente per Schopenhauer e Nietzsche), fa muovere l’Uomo in scenari che riportano a De Chirico o Casorati, abbonda di linguaggio dotto (talora con ironia e talaltra con un pizzico di perdonabile compiacimento), alterna il classicheggiante (“Foschi faci / Che nell’occaso / Invisibile”) con l’aspra immagine (“Piovono nelle calli / Schegge di cristalli / Come urla”). Interrogativi e solitario o riversato macerarsi dell’animo umano si impastano tra Carne, Caos e denso Nulla.