Levi, Brecht e la madre del Mostro

Bertold Brecht: “La matrice che ha partorito questo mostro è ancora feconda”. Lo cita Primo Levi nella prefazione che scrisse per Se questo è un uomo stampato nel 1972 da Einaudi nelle “Letture per la Scuola Media”. Avvertiva i ragazzi: “Libri come questo, oggi, non possono più essere letti con la serenità con cui si studiano le testimonianze della storia passata”.

Primo Levi percepiva la realtà delle parole di Brecht. Ammoniva nella poesia d’apertura “Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole”. Era sopravvissuto ad Auschwitz perché “il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminare (…) sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli”. Ha raccontato tutto ciò perché non si ripetesse, ma la “madre feconda” di orrore era viva mentre scriveva d’altro o mentre faceva il chimico nella società postbellica. Oggi vedrebbe il suo monito inascoltato e talora disprezzato: per illusione d’ideologia talvolta e talaltra perché piccoli solitari egoismi, senso d’abbandono a se stessi, paura d’esser inerme davanti all’ignoto spingono a intrupparsi in una suicida cecità generale guidata da ciechi, come nel romanzo di José Saramago.

L’11 aprile 1987 Levi morì precipitando nella tromba delle scale della sua casa di Torino, la casa che aveva descritto con amorevoli dettagli (“se ne fossi divelto, anche per trasferirmi in un’abitazione più bella, più moderna e più comoda, soffrirei come un esule, o come una pianta che venga trapiantata in un terreno a cui non è avvezza”). Dentro e poi davanti a quella casa, nelle redazioni dei giornali, infine ovunque, si rimase sospesi fra due parole, incidente e suicidio. Pur nell’assenza di accenni da parte sua a una spossatezza psicologica, persone serie cercarono, vagliando la seconda ipotesi, d’indagare un tormento mai lenito per ciò che aveva vissuto e visto o un divampare improvviso del passato nel presente.

Chi ha avuto occasione, oltre che di leggere i suoi libri, di ascoltare la voce dell’uomo, se al gesto volontario è stato incline a credere, una ragione la cercò non nella memoria che urla ma in un futuro intravisto in anticipo, un futuro coperto e soffocato dalla frase di Brecht. Primo Levi era un osservatore minuzioso delle piccole cose (“esistono ragni che iniziano il corteggiamento offrendo alla femmina un regalo”), della letteratura, dell’evoluzione sociale. Sosteneva che la poesia che lancia un messaggio cifrato è “necessaria all’autore, anche se inutile al resto del mondo”. Ma si portava dentro, “come un innesto”, versi di Paul Celan (poeta ebreo tedesco suicida a 50 anni nel 1970), anche se diceva di non averne capito il senso. E quei versi ripetono a ogni inizio di strofa: “Nero latte dell’alba ti beviamo la notte”.

In un libro del 1981 (La ricerca delle radici) Primo Levi scriveva: “Il disprezzo estremo dell’uomo, il pensare in termini di amici e nemici, la subordinazione totale alla volontà del Capo: sono questi gli elementi in cui ci si imbatte in tutti i sistemi totalitari” . Ma sono anche gli elementi che li creano.  Avverte chi cerca i colpevoli di ciò che avvenne dentro i lager: “Nessuno ardisca formulare la sua sentenza a cuor leggero. Gli individui che, se avessero ricevuto l’ordine di farne parte, si sarebbero comportati come il grosso delle guardie di Auschwitz , sono innumerevoli”. Li incontriamo noi oggi ogni giorno nei proclami, nelle piazze, sui social, nel negare, sminuire, contrapporre lager e foibe (l’orrore delle quali non ha ammonito l’ex Jugoslavia sul massacro etnico). Primo Levi aveva intuito che questa coltre di cenere del pensiero avrebbe dissolto la lezione del ricordo?

Già allora guardava con disprezzo il gioco dei partiti a tacere, negare, dire, urlare. A chi si propone di guidare gli altri chiedeva una cosa: “Solo di avere una vista un po’ più lunga di una spanna”. Ma una domanda (alla quale purtroppo la risposta è no) lo tormentava: “Anch’io in Auschwitz ho sognato che l’umanità avrebbe saputo ricavare un insegnamento da quanto in Auschwitz è diventato realtà, benché tutti prima l’avessero definito inconcepibile ed impossibile. Sarà capace di farlo?”.