“Quando sarò prossimo alla morte, fai un’iniezione al mio cane, perché non rimanga a soffrire sulla mia tomba”. Nelle disposizioni lasciate dall’ottantaduenne Alain Delon al veterinario bruciano pietà ed egoismo, solitudine e paura.
Da tempo discutiamo con dolore, cinismo, amore del fine vita delle persone, cercando regole e limiti, sempre dibattendo della volontà espressa da chi, in condizioni intollerabili, chiede d’andarsene. Quando invece, come per il cane, siamo noi a decidere, la parola eutanasia porta in sé qualcosa di scontato, un cupo automatismo che trascura una domanda: siamo certi, giacché lui non si esprime, di aver sfogliato con dedizione tutte le immagini del calendario a venire? Chi scrive queste righe, quando il veterinario infilava l’ago, teneva in braccio il suo Joyce, quattordici anni dopo averlo trovato per strada tremante e, non essendo lui gradito al proprietario della casa, aver cambiato abitazione e paese in due mesi per non lasciarlo più. Questo per chiarire che non è questione di legittimità: ho ancora in mente esami e analisi che con delicatezza il medico illustrava.
La decisione di Delon si fonda non su un corpo curvato a una fine tormentata, ma su una proiezione generata da malinconia e forse da un fondo depressivo. Ed è umanamente comprensibile, dove comprendere – che è un dovere – non significa accettare e giustificare. Quello che in Delon è una prospettiva accade anche fra persone e chi bazzica la cronaca nera conosce le terribili pieghe del suicidio allargato, dove un amore dilatato in uno scenario delirante fa dire: come potrete, moglie e figli, sopravvivere senza sofferenza estrema in un mondo tanto atroce da condurre me a una scelta irreparabile? come potrete cavarvela in questo inferno senza chi – ora vinto e rinunciatario – avrebbe dovuto proteggervi? Quell’uomo accecato uccide convinto di amare più di chiunque altro. Delon ama il suo cane così disperatamente da negargli la capacità di riposare il dolore in un affetto palliativo.
A salvare quell’innocente senza possibilità di scelta non può essere l’assalto all’attore rinfacciandogli l’egoismo nel sopprimere: non accetterà mai di riconoscerlo, non potrà riconoscerlo. Quello che dovrebbe invece faticosamente riconoscere è il terrore che il cane si affezioni in qualche modo, anche parziale, ad altri, a una persona che potrebbe fin d’ora, pian piano, giorno per giorno, accarezzarne la confidenza e la fiducia. Ma proprio quel percorso, quella persona, quell’incontro tra cane e amico avrebbero il contorno di un’ombra: la figura evanescente che rende palpabile l’ineluttabilità della Morte, che s’avvicina scrutando le ultime possibilità d’amare che essa concede.