Ircc Candiolo. E tutto il mondo fuori

Un quarto d’ora in una sala d’aspetto a Candiolo. Un quarto d’ora davanti a una porta nell’Istituto per la Ricerca e la Cura del Cancro, dove si va a misurare la minaccia, l’esistenza, la pericolosità d’un nemico. E, proprio lì, dove tanti immaginano passaggi soltanto di malinconia e tristezza, in un quarto d’ora ti rinfreschi anche dalla palude di schifo e pessimismo per una società che pare, lei sì, inguaribile d’una malattia morale degenrativa.

Breve cronaca di una mattina dentro e fuori Candiolo. Le rassegne stampa – non per loro colpa – riversano una becera campagna elettorale, baby gang, memoria della tragedia evitabile di Rigopiano, professore accusato di violenza sull’allieva minorenne, maestra violenta con i bambini e, sei hai pazienza, altro ancora.

Un colore sereno sul nero lo porge il titolare di un negozio di telefonia, dove hai dimenticato il bancomat accanto alla cassa: anziché fregarsene e chiuderlo in un cassetto (“se ci pensa, chi l’ha lasciato verrà a chiederlo”) si prende la briga di comporre gli ultimi numeri che ha registrato per la ricarica e ti rintraccia. Ti metti in auto un po’ rinfrancato: non siamo un intero popolo di individualisti, menefreghisti, furbetti e furboni.

Ma, mentre viaggi, Radio2 offre una sfilata d’ascoltatori che intervengono in trasmissione per narrare soddisfatti un loro lampo d’astuzia: io ho scavalcato e sono entrato allo stadio senza pagare, quello che mi inseguiva è caduto ed è finito in ospedale; io una volta per passare a un concerto mi sono finto della Digos; io parcheggio all’interno dell’ospedale senza pagare spacciandomi per quello che porta strumenti alla sala operatoria; io negli uffici pubblici supero le code…

A Candiolo, in sala d’aspetto, tra gente che legge, chiacchiera, riguarda ancora una volta i fogli che ha in mano, alzi gli occhi e loro sono lì: un ragazzo d’una trentina d’anni, lei forse più giovane, seduta su una carrozzina, la flebo nel braccio. Parlano fra loro ogni tanto, a bassa voce. Lui non ha un gesto forzato, apprensivo, di troppo o di tensione, le sistema la sciarpa, riordina la cartellina. Lei ne segue i movimenti e ha gli occhi che guardano la fonte della fiducia. Osservarli – comprendano e perdonino l’intrusione – è raccogliere quanto intorno si sparge della delicatezza, della riservata dolcezza che in un momento difficile li avvolge. Non può che essere quella che c’era prima di venire qui, è quella che sarà quando la bufera comincerà a placarsi.

Passa un’infermiera e lascia volare un sorriso. Lei bisbiglia qualcosa, allora lui si alza, va a domandare, torna e la spinge oltre la porta. E qui non ci sono quelli della radio (io… le code…): come cantava Vasco Rossi, “tutto il mondo fuori”. Non uno nella sala d’aspetto ha qualcosa da dire, non uno ha la smorfia del “c’ero prima io”. Quelli che temono e quelli che soffrono spesso sanno leggere e accarezzare timori e sofferenze degli altri.