Fotoreporter, la dolcezza dell’avvoltoio

“Avvoltoio”, “sciacallo”, gridano a cronisti e fotografi. Gente stesa a terra, in manette, in fuga, in preghiera, in lacrime, tra urla e invocazioni d’aiuto, e fra quella gente un uomo, in apparenza impassibile, che scatta immagini di scena, di volti, di rabbia e silenzio.

Oggi “avvoltoio” è chiunque, con il telefonino puntato su un incidente, un dolore, un errore o una banalità della vita. E spesso chi è protagonista degli eventi, anziché sottrarsi, si offre a telecamere e macchine fotografiche per apparire in Rete o nella tv che sfarina la cronaca e la ricostruisce in spettacolo. Ma il vero fotogiornalismo è tecnica, cultura, passione, cuore, emozione ed empatia, tutti controllati da un imperativo: tornare al giornale con il servizio ben fatto. Per svelare l’intimo di una professione ci voleva un Maestro e il Maestro, Sergio Solavaggione, offre il suo lavoro e se stesso in un libro di storie e immagini, Obiettivo sensibile (Daniela Piazza Editore).

Attraverso la propria storia – dalle giovanili notti a stampar foto d’altri in un piccolo laboratorio al grande studio Moisio, poi una carriera alla Stampa) Solavaggione percorre con ricordi e scatti l’Italia che cambia dall’inizio degli Anni ’50 in poi attraverso il costume, la cronaca nera, l’immigrazione, il mondo del lavoro, lo spettacolo, lo sport, la politica, i disastri naturali e le minuscole storie marginali in apparenza e invece simboliche della vita.

Il fotoreporter non celebra un’epoca o un mestiere. Li svela senza retorica e senza nostalgie, senza vanto e senza orpelli né ritrosie. E li svela commosso, come è commosso un uomo che s’insinua tra i dolori altrui e confessa: “Ho sempre la sensazione di portare via qualcosa senza restituire nulla”. Così è per la nonnina solitaria in una casetta isolata dalla neve: lui deve documentare tensione e paura e lei lo accoglie serena accanto al vecchio arcolaio, gli mostra pozzo e badile e poi la madia colma di ingredienti per la “bagna caoda”. Così è per la donna che nei corridoi della questura gli lancia una scarpa. Così è per papa Wojtyla che, mentre lo fotografa, supera il cordone di sicurezza e va a posargli la mano sulla spalla.

Nel libro incontriamo divi del palcoscenico, presidenti della Repubblica, pubblico “fumato” e quieto dei concerti, tensione ai cortei studenteschi, animali da circo, ragazzi stesi a terra da un’overdose, vittime e assassini e ostaggi. Passiamo tra loro condividendo l’ansia di realizzare il servizio e i tumulti interiori, l’imperativo di scattare – per quello se lì – e il freno morale di fronte alla donna bendata come una mummia, al bambino che ha atteso sotto un letto che finisse la sparatoria che feriva papà e mamma.

Solavaggione ha percorso navate di chiese e prati di stadio, corsie d’ospedale e pareti da scalare, stanze di caserme e piste d’aeroporti, arrivi al mondo e camere mortuarie, è passato tra foyeur di teatri e pallottole, ogni volta mirando al dettaglio che raccontava tutto, ma sempre restando lo stesso uomo tenace e accorato, sicuro e dubbioso. Questo narra: la cronaca fatta da persone, non da robot.

Oggi che tutti scattano e si sentono professionisti, racconto e immagini svelano il segreto più semplice, il monito che da ragazzo lui sentiva ripetere dai suoi maestri: non è la macchina più sofisticata a fare la grande fotografia, ma l’uomo che la impugna. E’ così che la giornata vissuta tra i misteri di un delitto non è una collana di istantanee, bensì il romanzo di quel fatto, con trama e sottotrame, apparenti divagazioni che completano la narrazione, fino a imbarazzare il cronista di penna, a renderlo timoroso di sporcare con le parole tutto quel che gli scatti porgono.

C’è l’essenza dell’Urlo di Edvard Munch nel volto distorto e nella bocca dilatata della donna che un pilota d’elicottero militare regge tra le braccia. Ci sono la pietà e insieme l’implacabile ritmo della cronaca nell’uomo a terra dopo una sparatoria, un buco nella pelle e nel polmone, il sangue che cola e, accanto, il taccuino tra le mani del cronista inginocchiato a cogliere almeno una parola: “Curatemi”.

Un tempo – nei giornali con maggiori risorse economiche – al primo allarme scattava una pattuglia affiatata: autista, fotoreporter e cronista, ciascuno cosciente delle esigenze degli altri, ciascuno pronto a capire da un’occhiata, da uno scarto del viso che cosa stava per accadere e che cosa si doveva fare. Nuovi media, nuove tecniche, revisione dei tempi e delle necessità, problemi di bilancio, nuovi accessi alle informazioni, nuove scelte editoriali hanno in parte mutato quel modo di lavorare. Ma non l’hanno polverizzato, perché Solavaggione e i grandi amici e colleghi che gli sono a fianco nel libro hanno fatto scuola. Una scuola dove con la tecnica e la tenacia si sono trasmesse a una nuova generazione una fortuna e un regola imprescindibile. La fortuna è amare il proprio lavoro (“migliore approssimazione concreta della felicità”, diceva Primo Levi, citato in epigrafe). Imprescindibile è la consapevolezza di trattare – nella rincorsa del tempo che preme, tra proiettili, insulti, sorrisi – la merce più delicata che si possa avere il privilegio di maneggiare: i sentimenti, le sofferenze, la dignità, la vita degli altri.