Non mielose parole e nemmeno smisurati auguri. Questa notte cambiamo calendario alla parete o agenda sul tavolo come a fine ottobre abbiamo cambiato ora. Ma lo facciamo affidando allo scatto della mezzanotte un simbolo, una spugna sui dolori, una luce sulle speranze.
E’ confortante e giusto, ed è realistico se questo transito è consapevole che un cambio d’anno non porta miracoli, che l’ “avviso” del tempo che scorre è un invito ad aiutare le attese. Lasciamo agli oroscopi grandi amori, inaspettate ricchezze, successi o rivalse sul lavoro (spesso il difficile trovarne uno). Stasera è domenica, domani è lunedì, si aggiorna il numero dell’anno ma non la vita che siamo e nella quale stiamo nuotando. Capodanno non fa spuntare per incanto l’unica cura che un poco allevia o risolleva le sorti: la consapevolezza di ogni ora che viviamo, del suo valore, la quale consapevolezza genera l’etica che sconfigge l’individualismo esasperato, quello sì malattia degenerativa e logorante, che incupisce prima e poi abbrutisce.
Stasera molti brindano. Brindano al futuro gli sconfitti e i vincenti, brindano gli ingenui e i teneri, brindano coloro che spolpano pian piano un Paese e si preparano alla lotta per un nuovo banchetto, brindano anche quelli che – “obbedendo agli ordini” come dicevano alcuni tizi al processo di Norimberga – fino a poco prima cacciavano o multavano chi portava non spumante ma una tazza calda agli ultimi.
E’ giusto brindare: a noi come eravamo, come siamo e come diventeremo se saremo capaci di essere, cioè pronti ad aprirci, a renderci conto che non siamo greggi al pascolo o ombre senza valore, di renderci conto di ciò che abbiamo, di ciò che aspettiamo ma anche di ciò che dobbiamo.
L’augurio da questo sito alle persone che hanno avuto la cortesia e la pazienza di frequentarlo ogni tanto in questo anno è di entrare nel 2018 con la consapevolezza di sé e degli altri. Guardiamo il 2017 con l’occhio di queste poche parole di Orhan Pamuk: “La sera di un lungo giorno, un uomo lasciato solo nella sua poltrona a essere se stesso è come un viaggiatore che torna a casa dopo un viaggio lungo e avventuroso”. Dopo quel viaggio, quella sera – questa sera – si può e si deve pensare a domani. Scriveva Marcel Proust: “Essendo l’avvenire ciò che esiste solo nel nostro pensiero, esso ci pare ancora modificabile dall’intervento in extremis della nostra volontà”.
L’augurio – piccolo e sincero – è proprio questo: festeggiare un simbolo, ma pensare a un futuro nostro, non delegato ma vissuto. Chi, per malattia, l’ha visto annebbiarsi, ha temuto di vederlo dissolversi, ha imparato a tenerlo per mano. Da qui la speranza che ciascuno dei lettori veda spuntare una piccola fontana che ogni tanto zampilli serenità, sorriso allo specchio e sorriso rivolto agli altri, innaffiando prima di tutto – prima di ogni attesa o sogno – affetti consolidati o sorprendenti, ritrovati o di memoria. Buon proseguimento.