Il megafono di Brumotti e la vera cronaca

Il megafono di Brumotti e le aggressioni che ne seguono – dai lanci di mattoni fino ai colpi di pistola – impressionano e indignano. Ma, con tutto il dispiacere per la troupe, il giornalismo è un’altra cosa e un’altra cosa, più profonda, è quel che lascia nell’animo dello spettatore.

Striscia la notizia lancia come una “campagna contro la droga” ogni irruzione di Brumotti con il megafono nei luoghi dello spaccio. Se l’obiettivo è spargere agitazione e reazioni – che fanno spettacolo – il sistema è quello giusto. Se l’obiettivo è quello di documentare e creare una sensibilità allora la via è un’altra. Nel “bosco di Rogoredo” il 3 novembre è andato per Sky Carlo Imbimbo, inviato di spessore professionale e umano (il servizio è visibile in video.sky.it/news/cronaca/bosco-della-droga-sky24). Imbimbo si presenta per quel che è, non per moralizzatore o cacciatore di scoop . E lo ascoltano, rispondono, quasi si giustificano senza essere accusati. L’operatore inquadra siringhe, la carcassa d’un furgone, corpi vaganti che a stento stanno in piedi. Il cronista cerca voci, volti che si svelano, dolori intimi e dalle origini oscure, li mette in contrasto con la vita a due passi, veloce come il viaggio dei treni che corrono lì accanto, registra pensiero e azione dei carabinieri. Racconta esistenze, non s’illude di risvegliarle con un tuono.

Il tuono appartiene allo spettacolo. E questo propone Striscia, così come i programmi d’intrattenimento del pomeriggio con le lunghe tirate sulla cronaca nera, dove protagonisti non sono personaggi e luoghi della sofferenza ma la figura col microfono (o col megagono). Quando Michele Buoninconti (sospettato allora, poi condannato, per l’assassinio della moglie Elena Ceste nell’Astigiano) mal reagiva all’assedio mediatico, persino spettatori convinti della sua colpevolezza da casa commentavano: “Suonagliele più forte, Michele”.

Da una parte ci sono i cacciatori di scene ad effetto, dall’altra i cronisti. Daniele Piervincenzi non è andato a provocare Roberto Spada, ma a fargli legittime domande: la testata che gli ha rotto il naso è stata l’imprevisto, non la parte forte del servizio. Carlo Imbimbo è andato nel gorgo dello spaccio non per farci vedere quant’è coraggioso, ma per capire, testimoniare, trasmettere, documentare degrado, sbriciolarsi di vite, tanto che commenta: “Non è facile seguire la solitudine”, e parlando di “boschetto dello spaccio”, aggiunge: “Come se un diminutivo potesse smorzare il problema”.

Sempre questa professione è stata vista come volo di avvoltoi o passo di sciacalli. I professionisti conoscono e applicano la fulminante lezione di Enzo Biagi (“Si entra in punta di piedi”), ma il bisogno di spettacolo, di “attapirati” nervosi, di maleducati d’ogni sorta, di pianti o esasperazioni allontanano quella lezione, snaturano il racconto, tradiscono l’umiltà senza protagonismo dei giornalisti veri.