“Io ci metto la faccia”. Basta, per pietà.

“Io ci metto la faccia”, “Io ci ho messo la faccia”. Uno slogan – ormai una litania – si è propagato come un virus tra leader, gregari, firmatari di leggi, candidati. E quello che dovrebbe essere un normale assumersi responsabilità viene ripetuto con tono eroico, come da soldati che escono dalla trincea e si ergono impavidi di fronte all’artiglieria nemica. Nessuno si rende conto che tono e ripetizione, più che evocare coraggio e serietà, confessano un patetico vuoto.

E’ tanto facile quanto istintivo risentire il “mi faccia il piacere” di Totò all’onorevole Trombetta. Ma è calzante: è possibile che con naturalezza si consideri un fatto eccezionale l’esporsi in politica? tanto eccezionale da rivendicarlo come un merito? ci si stupisce di riuscire per una volta a non nascondersi, a non dissimulare?

Siamo assuefatti a vedere le classi dirigenti innamorarsi d’una frase o di un termine come i bambini di una parolaccia, ripetendola fino a svuotarla d’ogni significato, nascondendosi dietro ad essa, il che è un paradosso nel caso di “ci metto la faccia” (così diffuso da esser cantato anche con il sorriso nello spot di una banca). Forse questi eroi dovrebbero riflettere su quanto Joseph Conrad scriveva in Nostromo: “Il valore d’una frase risiede nella personalità di chi la pronuncia”.