Peppina di 95 anni sfrattata e il piccolo down che non trovava famiglia adottiva. Due istantanee di un’Italia che si commuove e si indigna, non si ferma a riflettere e corre a un nuovo spettacolo che accenda emozioni.
Nonna Peppina di San Martino di Fiastra (Macerata) fa tenerezza, quindi la casetta costruita in una zona sottoposta a vincolo deve essere condonata in nome del buon senso. Il piccolo down in abbandono aveva bisogno di famiglia, quindi gli aspiranti genitori adottivi che hanno detto no al tribunale sono biechi egoisti. E’ tutto così netto, così drastico?
Ognuno di noi vorrebbe veder Peppina vivere felice nel suo nuovo angolo i suoi ultimi tempi. Ma senza trascurare che c’è un prima e c’è un dopo. Il prima è come la casa è spuntata. Chi l’ha progettata e costruita ignorava il vincolo? Lo ignorava anche il Comune? E se l’Ufficio tecnico del Comune non lo ignorava perché ha detto sì, se ha detto sì? Forse perché l’ostacolo era superabile ma legge e burocrazia avrebbero dilatato i tempi durante un’emergenza? Sarebbe bello leggere che lei, Peppina, non deve chiudersi in un container e può restare lì, ma sarebbe anche interessante leggere come si è arrivati qui e il dopo: quando non ci sarà più la nonnina con la sua tenerezza e il suo legame, che ne sarà della costruzione? Avremo una demolizione posticipata? Una casa vacanze che grazie a lei sopravvive nell’Italia delle sanatorie? E chi oggi è commosso ma riceverà un ordine di abbattere un capanno da attrezzi chiederà: perché io sì e gli eredi di Peppina no? Non siamo forse il paese dove a caldo siamo tutti buoni e a freddo rancorosi? O, forse, passata l’emergenza, la casetta potrebbe essere una postazione dalla quale i Forestali dei Carabinieri combatteranno gli abusi?
Per il piccolo down ci si è subito indignati contro le coppie che, contattate dal tribunale al quale avevano presentato domanda d’adozione, hanno risposto no. Con ogni probabilità le ha disprezzate anche chi, durante l’attesa biologica, con legittima apprensione a ogni esame chiedeva ai medici: “Com’è? Tutto a posto? E’ sano? Quante dita ha? I piedini sono dritti?”.
L’adozione è un percorso complesso e variegato, talora intrapreso dopo inutili tentativi di procreazione naturale, talora scelto con consapevolezza come incontro e fusione di due esigenze. La partenza è comunque “volere un bambino” e, come capita ai genitori biologici, si veste il desiderio di sogni, di immagini, di ideali. Diverse famiglie, sentendosi in grado d’affrontare realtà estranee agli stereotipi – realtà portatrici di fatica, ma anche amore e gioia straordinari – sono pronte a dare disponibilità più ampie, senza sentirsi eroiche. Ma un conto sono le ipotesi, l’entusiasmo, la generosità, un conto è rispondere sì o no alla realtà.
Il cammino che si compie dopo depositata la domanda di adozione, là dove i servizi sociali lavorano con garbata profondità e scrupolo, senza giudizi a priori, non è, come molti credono, quello di un’indagine poliziesca: è una presa di coscienza di sé, delle spinte, di tristezze e attese e speranze. E’ una crescita. E proprio crescendo, conoscendosi meglio, si può dire no a ciò che si teme di non saper affrontare. Può talora essere egoismo, talora paura vissuta con vergogna, talora umiltà.
L’egoismo, o peggio ancora il considerare i bambini un prodotto da banco di negozio, esistono, e senza vergogna alcuna. In episodi strazianti mi sono imbattuto durante il lavoro giornalistico sui minori: un bimbo nordafricano abbandonato alla nascita fu proposto a famiglie che avevano presentato doppia domanda, nazionale e internazionale, e una di queste lo rifiutò perché era “troppo nero, africano e non sudamericano”. Un’altra coppia riportò fisicamente in tribunale il bimbo che, cresciuto, era secondo loro ingestibile: “non lo sopportiamo più”, dissero e, togliendogli la catenina dal collo, aggiunsero: “questa è nostra”. Non oro hanno portato a casa, ma il simbolo del loro fallimento umano. Certo, in quelle due storie ci hanno guadagnato i bambini, ma insieme all’indignazione quelle coppie ispirano la pietà invocata dalla peggiore sconfitta che ci può autoinfliggere.
Come non li si condanna qui a priori nemmeno si vogliono difendere al buio coloro che non hanno voluto il piccolo poi adottato da un single. Si difende invece il dovere di esser prudenti di fronte alla complessità dell’ansia di fronte a una realtà diversa dal sogno, la malinconia di scoprirsi meno forti o generosi e tracimanti amore di altri.
Talvolta si giudica al volo senza cercare colori e sfumature (uno sfratto, un’adozione mancata, un avviso di garanzia visto già come condanna) e senza neanche guardar se stessi: cattive quelle coppie, giustificato dai troppi impegni io che da due mesi non vado a trovar mio padre chiuso nell’ospizio. Reagire alle notizie con l’impeto del cuore è quello che ci fa esseri emotivi anziché computer, andare oltre lo “spettacolo” televisivo del pianto e del grido è quello che ci fa uomini.