Incaricano qualcuno di scrivere una legge contro lo stalking, la votano e soltanto dopo una sentenza che la applica si accorgono d’aver stabilito che basta pagare qualche soldo per cancellare il reato e soffiar tutto in una bolla di sapone, lasciando in anime e corpi offesi, con la sofferenza, anche l’umiliazione.
Giurano che lo ius soli non è un’opzione ma un atto di civiltà. Poi qualcuno guarda avanti, al voto che s’avvicina, e si sfila, gli altri si contano e scoprono di non avere i numeri. Ha detto Alfano in sintesi: è un principio irrinunciabile, ma rinviamo perché votarlo ora può far vincere gli avversari, quindi lo voteremo dopo le elezioni. Tanto valeva dire sì subito, giacché il messaggio che ha inviato è: siete avvertiti, se lo ius soli non vi piace scegliete quegli altri, noi ve lo rifileremo comunque.
I più convinti sostenitori del diritto di cittadinanza sensibilizzano al tema con lo sciopero della fame, ma un giorno per uno, una staffetta ricoperta da argute ironie e volgari sarcasmi sul web, accolta con stupore dai più riflessivi, anche favorevoli alla legge. Certo, per i promotori la staffetta contiene un forte valore simbolico e di progressivo coinvolgimento, ma ormai l’opinione pubblica è diffidente, e irride i singoli parlamentari che aderiscono: l’impressione è che per molti quella giornata faccia fine e non impegni, di certo impegni meno del sottoscrivere con nome e cognome l’adesione oggi come domani al sì, della promessa insomma di non nascondersi poi dietro questioni di nuovi assetti, nuove alleanze, opportunità di tempi, realtà cambiata. Come se con un giorno di digiuno il compito fosse fatto e poi si vedrà.
Ne approfittano e sghignazzano dal versante opposto, dove ci si ostina a far credere agli elettori che lo ius soli serva a premiare ladri di case e lavoro presenti o futuri e altri richiamarne (le leggi molti le discutono senza aver dato nemmeno una scorsa rapida). La gente ha paura degli arrivi e chi cavalca le paure, ci soffia sopra, le ingigantisce finge di non conoscere una elementare realtà che Umberto Eco descrisse vent’anni fa prendendosi del visionario: altro che emigranti, iniziano migrazioni di popoli. E queste non le fermano proclami, leggi, muri, navi da guerra, doni ai libici per rinchiudere ammassi di corpi in sadiche prigioni, bonifici a governi instabili se va bene, dittatoriali se va male.
Si è diffuso in ogni color di partito lo slogan “aiutiamoli a casa loro”. Buona parte dei migranti ne sarebbe felice. Ma per farlo la politica dovrebbe fotografare il cuore delle realtà di partenza e poi offrire l’aiuto vero: non quello che consente di vivere, ma quello che permette di conquistarsi la vita (lo scriveva già il sovietico Vladimir Tendrjakov una sessantina d’anni fa). E qui è inutile, pericoloso per il futuro, convincere la gente che caos e disordine e insicurezza si risolvano con slogan e cacciate generali, dal caos alla quiete si può arrivare soltanto con l’integrazione definitiva di chi già sta abbracciando la convivenza, già oggi più integrato di tanti sociopatici italiani figli di italiani.
Ma questa sarebbe Politica, non gioco politico di una perenne campagna elettorale. La Politica – il cuore della convivenza e di ogni futuro – sembra evaporata dal parlamento e dai partiti, che non appaiono nemmeno un dopolavoro (dopo quale lavoro?), ma un circolo ricreativo dove si parla, si vota talora senza leggere che cosa, nemmeno per curiosità, e ogni tanto si ammicca alla folla. In alto sui tabelloni con i manifesti dei candidati si dovrebbe scrivere una secca frase di Carlo Fruttero: “La politica non ha niente da dire e lo dice”.