Ho fatto una cazzata. Era soltanto una bravata. Fulminee sintesi ricorrono nella cronaca nera. I ragazzi sorpresi mentre danno fuoco a un bosco (e agli animali che non riescono a fuggire) paiono percepire nel loro gesto lo spettacolo e l’attimo di protagonismo: una bravata, nulla più. E “ho fatto una cazzata” dice al centralino del 112 chi ha massacrato padre o madre o tutti e due, lo dice chi accoltella, strangola, incendia la fidanzata o l’ex moglie.
Nella monotonia della ripetizione si può vedere – con ottimismo – una povertà di pensiero e linguaggio, l’ammissione sbrigativa dell’irreparabile. Ma forse, purtroppo, si può vedere anche la sostanza: l’incoscienza dell’orrore, lo sgretolarsi di una scala di gravità dei gesti e delle loro conseguenze ineluttabili.
“Era una bravata”, “ho fatto una cazzata” rispecchiano una povertà umana e quella di una società fondata sempre più sull’Io. Suonano: “Capita a tutti di non riuscire a controllarsi e allora ci scappa il fattaccio”. Ma il fattaccio sembra non contenere il peso del sangue, della morte, del dolore. L’ho fatto, ormai è successo. C’è tutto il ridimensionamento del peso,
E’ nell’animo umano autoassolversi, ridurre la gravità. All’epoca di Tangentopoli risuonava persino in Parlamento un mozartiano “così fan tutti” che doveva annegare nella consuetudine il malaffare del singolo e invece proprio in questo modo svelava l’abiezione condivisa.
Oggi l’autoassoluzione non passa più attraverso la spartizione del Male con altri, ma attraverso lo sbriciolarsi della gravità. “Ho fatto una cazzata” non è soltanto un’espressione infelice, è la vera dimensione che si dà ai propri gesti. Nasciamo e cresciamo già assolti da noi stessi.