Successo e ammirazione. Fino all’evento che deve celebrarli. Ma proprio l’attimo simbolico, la consegna del prestigioso Premio, vede esplodere il groviglio di insoddisfazione e prigionia. apre il cammino di una resurrezione psicologica. E’ coraggioso L’undicesimo comandamento (Sperling & Kupfer)), nuovo romanzo di Niccolò Zancan, inviato della Stampa su fronti delicati e a volte terribili, già autore di Siamo tutti bravi a morire (Meridiano Zero) e Ti mando un bacio (Sperling & Kupfer).
Il protagonista, Andrea Marai, è un giornalista che nella sua Torino e per il mondo insegue i dolori altrui tentando un equilibrio fra cuore e freddezza di mestiere, tenace nell’essere sul posto per poi tutto imprigionare nella tecnologia di telefono, computer, telecamera che sono ormai parte di lui. Ha una donna desiderosa d’un figlio, ha storie di letto senza complicazioni, fa i conti con l’oscura morte di un collega-amico, annaspa nel mistero della mente d’un padre ostaggio dell’Alzheimer dopo un fuggente passato di cantante famoso.
Con un colpo di fortuna e d’abilità, sul confine del ricatto, è l’unico fra un esercito di colleghi a intervistare la volontaria appena liberata da mesi di sequestro in Siria. Anche grazie a quest’ultimo successo ottiene il Premio che lo incorona. Ma mentre respira quella vetta di carriera, le sue conquiste, le certezze, la sicurezza si frantumano, E’ il corpo a cedere. In ospedale s’immerge in un silenzio che è insieme l’aprirsi di un canyon e il possibile ponte per ritrovarsi di là. Precipitare o attraversare senza sapere, senza un mondo prefissato, prenotato come gli alberghi del lavoro.
Non più viaggiatore di vite altrui, Marai diviene lui stesso viandante, esploratore di sé verso boschi e mare, sganciato come un tossico in astinenza dalle tecnologiche tastiere che erano parte integrante del suo quotidiano e del suo essere. Il giornalista efficiente non c’è più, ora seguiamo il risorgere dell’uomo che stava chiuso in quella raffigurazione del successo e che si mette in cerca non d’un racconto ma della propria vita.
Il viaggio umano di Marai acquista forma e forza in una ragnatela di personaggi, ambienti, accadimenti, memorie: la Torino a scacchiera (come è finito lui fuori dal quadro di quella geometria?), la notturna redazione deserta, i colleghi con i loro spigoli e le loro delicatezze, slanci e invidie, ambizioni e rese, la donna che vorrebbe divenir famiglia e per prima coglie la sua insofferenza sotterranea, la ragazza che addormenta le ansie, il padre perduto agli altri ma non del tutto a se stesso grazie a un ricordo contro il quale anche l’Alzheimer è impotente. Poi la Liguria che si prepara all’estate, moli, carruggi e botteghe, e l’entroterra pacificatore, con i suoi moderni elfi. L’itinerario psicologico di Andrea è come accompagnato da un coro che allevia o complica il cammino in un romanzo tanto ricco e denso quando sciolto nella lettura.
Giacché in epigrafe Zancan cita Giovanni Arpino (“… ciascuno dovrà ritrovare il suo sentiero nel bosco, da solo”), è il caso di ricordare che proprio Arpino riteneva il mestiere di romanziere più arduo per i giornalisti che per chiunque altro (essendo forte il rischio di commistioni fra approcci, linguaggio, struttura). Zancan esce due volte illeso e forte da questo rischio, due volte perché nella prima parte del romanzo palcoscenico è proprio il mondo del giornalismo svelato com’è, senza infingimenti e senza fascinazioni di maniera, con l’avventura e la sfida, le piccolezze e le incertezze in quella corsa connessa alle vite altrui e alla tecnologia fino al successo e al capovolgimento del sé, quando dentro l’uomo si fa strada e divampa la rivincita della natura.