“Un debole – ora ho capito – può trasformarsi suo malgrado in un demonio”. Se, vinta la ripugnanza, abbiamo il coraggio d’ascoltarlo, l’assassino racconta gli scivolamenti progressivi che portano il suo degrado a cancellare la realtà e chi la incarna.
Nei titoli e nei commenti quasi sempre la tortuosa deriva d’una mente sconfitta è liquidata in “amore malato”. E’ invece un groviglio di paure e arroganze, sospetti rosicanti e certezze rifiutate, dialogo che si sfrangia fino a strapparsi, intuizioni e timori delle persone intorno, aiuti generosi o maldestri o impotenti di fronte a un epilogo prevedibile ma difficile da impedire. Questo è il lento e inesorabile percorso di “Cronaca di un delitto annunciato” (L’Asino d’oro edizioni), romanzo di Adriana Pannitteri, giornalista del Tg1, autrice di “Madri assassine” (diario dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere), “Vite sospese”, “La vita senza limiti” (con Beppino Englaro), “La pazzia dimenticata”.
Protagonista del romanzo ispirato a un fatto reale è Antonio, carabiniere siciliano, il quale subito in una lettera si presenta con la disarmata semplicità che ne ridimensiona non il ruolo omicida ma quello spettacolare della cronaca: “Il mondo mi definisce un mostro. Sono soprattutto una persona debole e le assicuro che ammetterlo è per me una liberazione”. Scrive a Maria Grazia, volto – e dietro il volto apertura ad ascoltare – che ha scelto fra i tanti della televisione. Non cerca giustificazioni e sconti: riordinando il proprio cammino, cerca se stesso in mezzo al caos dell’assurdo.
Ci inoltriamo in una storia di coppia e poi di famiglia senza lampi né stranezze, ma della quale sappiamo che finirà molto male. Senza essere condizionati viviamo l’incontro e il rapido corteggiamento al mare, ma sentiamo più cupi nella loro vicenda gli echi dell’esplosione che durante il matrimonio giungono dall’attentato a Paolo Borsellino e alla sua scorta. Siamo partecipi della vita dei due sposi e dell’impegno in divisa di Antonio e troviamo naturale che anche lei cerchi un lavoro, in una struttura religiosa per anziani e malati, ma ci inquieta l’intervento in uniforme di Francesco dopo l’omicidio-suicidio di una coppia. Proviamo sollievo alla nascita del bambino, ma insieme ci turba la percezione di un altro scivolamenti progressivo del padre quando percepiamo come il bambino diventi l’oggetto quasi ossessivo del suo amore, della premura, dell’ansia.
E quando lei, Francesca, trascurata e percorsa non da desideri ma da incertezza e disagio, scopre in un medico un affetto profondo e limpido, assistiamo allo smottamento definitivo, impotenti quanto lo sono, seppur sinceramente partecipi, il collega di Francesco, i superiori, uno psichiatra. Il lettore respira l’ansia di lei e la depressione di lui, sorriso e stupore del piccolo, sofferenza di chi accanto a loro comprende il groviglio e non può districarlo, libertà di Francesca nella separazione, ma libertà minata perché la china di Antonio si fa monomaniacale e ossessiva. Fino ad affidare alla Morte la sua “giustizia” e il suo annaspare nella vita.
Forza di questo romanzo è il non essere l’ennesimo “punto di vista del mostro”, è lasciarlo scorrere insieme con azioni e reazioni degli altri animi in gioco, spaventati e generosamente apprensivi per l’obnubilamento dell’amico. Ci sono la rovina che si annuncia, lo sbracciarsi per impedirla, il precipizio. Vissuti su tre binari: la storia della coppia, la vita professionale della giornalista dove irrompe Francesco a vicenda compiuta, la luce sempre più nitida portata dalle sue lettere sono non piani distinti di lettura, bensì l’accordo degli strumenti che compongono l’orchestra.
Adriana Pannitteri scrive con una solida esperienza di cronaca e d’inchiesta ma la impresta al romanzo perché i personaggi siano liberi di muoversi e raccontarsi, accompagnandoci non in quella che, saccheggiando un titolo profondo di Hannah Arendt, chiamiamo banalità del male, bensì nei sotterranei del male.