Siamo assuefatti alla corruzione come a un cronico raffreddore della società. Del topo d’alloggio, dello scippatore, del piccolo truffatore sentiamo concreti danno e pericolosità, la corruzione ci appare vaga, lontana, senza vittima riconoscibile, ci indigna ma non pare colpirci personalmente.
Ad essa invece ciascuno di noi consegna parte delle sue tasse, è anche a causa sua se imprese chiudono e nuovi disoccupati annaspano, se l’ambulanza non arriva o non sa dove approdare. Del ladro possiamo non essere vittime mai, oppure più d’una volta, del saccheggio di denaro pubblico lo siamo ogni giorno, ciascuno per la sua parte.
Si acquista consapevolezza leggendo Il sistema della corruzione (Editori Laterza) di Piercamillo Davigo, sostituto procuratore nel pool Mani pulite degli Anni ’90, poi Consigliere di Corte d’Appello, ora giudice di Cassazione, fino al mese scorso presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. In un’epoca nella quale non ci si difende “nel” processo bensì “dal” processo attaccando i magistrati, Davigo è immune dalla tentazione di difendere un lavoro, un ruolo, una categoria. Si limita a narrare e spiegare una deriva, attraversando vent’anni di corruzione e accompagnandoci fra meccanismi, alleanze, strategie, collusioni, spartizioni in un fenomeno che si rigenera dopo ogni inchiesta perché si alimenta di forze nuove, coinvolge soggetti, quasi si tramanda all’interno di uffici, imprese, criminalità comune, faccendieri, partiti politici.
Il viaggio di queste pagine corre tra indagini, testimonianze, confessioni che scoperchiano il verminaio e il suo lavorìo fatto di iniziativa personale o di gruppo così come da una ragnatela di vastissime dimensioni, con cartelli di imprese che si spartiscono appalti secondo una turnazione del miglior ribasso (a risarcire ci penserà la revisione prezzi).
Senza toni moralistici, spesso anzi con raffinata ironia, Davigo cuce il lavoro degli inquirenti con casi più o meno eclatanti e con il racconto di corrotti e corruttori. Filma il “contagio”: l’arresto di ventinove dei trenta dipendenti di un Ufficio Iva svela come il nuovo assunto sia assoldato, tanto che tre “riscossori” sono individuati la prima volta che lavorano insieme. Svela come il chiamarsi fuori diventi emarginazione, come si continuino a pagare rate di tangenti a burocrati già in pensione, perché smettere significherebbe non essere affidabili per i successori e privarsi della possibilità di dilazioni. E’ impressionante la naturalezza con la quale un camorrista spiega a un carabiniere infiltrato la suddivisione del pizzo: una parte a noi, una ai partiti, fino a condurlo dentro il Palazzo. Dalle foreste politiche non balzano fuori soltanto il finanziamento illecito e la voracità individuale: talora il denaro non è destinato a un paradiso fiscale, ma alla scalata, alla carriera attraverso benefici e “acquisto” di tessere.
Davigo spiega il “sistema”, lo analizza da tecnico, senza far prediche. Ma il degrado etico trasuda dal racconto. Non a caso quando Bettino Craxi, in aula di Parlamento, liquidò la faccenda con un “così fan tutti”, nessuno si alzò per dirgli: parla per te. L’attacco alla magistratura, al suo “potere” diviene fondamentale, attuato sul piano pratico (con leggi che ne limitino le possibilità d’investigare) e su quello dell’immagine: quando un sottosegretario fu ascoltato chiacchierare con il socio intercettato del figlio di Totò Riina, lo scandalo non fu quel binomio di dialoganti ma il fatto che ci si fosse permessi di sentire, come se l’indagato fosse indagabile secondo l’interlocutore.
Sulla delegittimazione delle indagini l’autore non spreca pianti, la descrive con acuto sorriso. Il politico è l’amministratore del condominio, noi gli inquilini, la magistratura il cane da guardia. Ma quando il cane da guardia insegue il ladro, l’amministratore lo bastona. Eppure la “guardia” funziona e molto rivela, come sintetizza l’esempio del passante ferroviario di MIlano. Costo preventivo due miliardi, il doppio dello stesso lavoro a Zurigo. Durante le indagini imputati e avvocati spiegarono che il confronto era assurdo perché a Milano la falda freatica era più alta che a Zurigo. Dopo gli arresti il costo scese di 500 milioni. Scrive Davigo: “Si può ipotizzare una novità dal punto di vista tecnico, e cioè che gli arresti fanno abbassare la falda freatica”. Se non è così, l’alternativa è la ruberia. Ed è sorprendente che le indagini siano agevolate dai periodi di crisi: se si riduce la torta aumenta la litigiosità dei commensali.
A fine libro ci rendiamo conto di come, sempre più assuefatti alla corruzione quale malanno incurabile e che non ci tocca, ci siamo assuefatti anche ad essere derubati, impoveriti, meno liberi, più malati, talvolta morti per una generica malasanità.