Minzolini, Lotti e la brutta osteria

Nessuno si è stupito delle votazioni in Parlamento a favore di Lotti e poi di Minzolini, ma tanti hanno sofferto il clima da osteria nel quale si celebrava non una persona, bensì una vittoria di casta. Mancava soltanto il gesto dell’ombrello alla magistratura. E al Paese. I giornalisti che hanno fatto cronaca nera hanno visto scene più eleganti quando pregiudicati festeggiavano il compare uscito di galera.

Nella foto qui sopra (Corriere della Sera) mani cercano la pelata del “vincitore” come quelle delle anziane i piedi del Cristo in chiesa. In un altro scatto si libera un pianto commosso. Non fosse per i banchi e le poltrone e gli abiti, poteva essere una scena da Rigopiano, quando i soccorritori tiravano fuori un sopravvissuto.

Quelli che dovevano essere un voto sulla fiducia e uno sulla decadenza sono stati vissuti nel Palazzo come sfide ai giudici, a una legge votata dallo stesso Palazzo, a un Paese nemico e piegato. Di Majo ha sbagliato a evocare l’eventualità minacciosa di una violenza di piazza, ma è altrettanto vero che la calamita dell’ira sono soprattutto quelle immagini , dove anziché una compita stretta di mano c’è il grossolano trionfo di una ciurma all’osteria, alla faccia di tutti.

Su legittimità, opportunità, ragioni, contraddizioni del voto su Minzolini, dello scambio di cortesie tra partiti per il caso suo e quello di Lotti hanno dibattutto politici e politologi. Resta questo senso di branco che festeggia scomposto un’onnipotenza, una alterità rispetto al Paese: “anche questa è andata”, “abbiamo vinto pure stavolta”.

Chiedere eleganza e sobrietà a questa classe politica (persino nel suo interesse) è assurdo come chiedere a un orso polare di depilarsi. Più che quello dei due uomini sottoposti al voto, è l’animo del branco a carezzare i “salvati” come talismani del futuro di ciascuno. In quelle immagini più ancora che in un voto scontato c’è disprezzo per l’Aula e per la plebe fuori di essa.

E se chiedere sobrietà è assurdo ancor di più lo è chiedere un contegno, magari ipocrita, che tenga conto di qualche riferimento culturale. Scriveva Vittorio Alfieri nel 1777: “Tirannide indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità”