Proviamo a scendere, senza paure né inganni, nelle stanze opache dell’Alzheimer.
La Scienza ci guida fin dove può. Oltre, se ci lasciamo condurre, ci porta la poesia. Non a capire, ma a “sentire” silenzi, immobilità, parole scompagnate e gridi, carezze, sguardi in fiamme o sbiaditi, oggetti, attese, respiri di dedizione e sospiri di stanchezza. Ci voleva coraggio intellettuale per un’antologia su questo tema e l’ha avuto Interlinea con Alzheimer d’amore, a cura di Franca Grisoni, poetessa che ci accompagna con il garbo d’un giardiniere tra i versi d’una trentina di autori in viaggio nell’intrico di sofferenza-buio-affetto.
Alzheimer d’amore non nasce dall’improvvisa scoperta di un ampio materiale sparso. Al contrario, nasce dall’incontro di Franca Grisoni con i versi di Davide Rondoni: “Ora artigliaci Dio / tienici nel tuo / alzheimer d’amore, / perdiamola tutti / la memoria del male // se ne vada come una canzone dalle labbra / e dalle pianure bianche dei nomi”. Da qui l’idea di pubblicare poesie non in un cofanetto ma di volta in volta nelle ultime pagine d’ogni numero della rivista scientifica Psicogeriatria, il cui direttore, il professor Marco Trabucchi, fu lieto di portare un linguaggio altro – emotivo, libero, figlio della musica dell’anima – a completare speranze, limiti, sforzi della Medicina.
Versi improvvisi e istintivi sono venuti intrecciandosi a quelli di autori noti e altri sono venuti poi per questo volume, da Andrea Zanzotto a Vivian Lamarque, da Valerio Magrelli all’uruguayano Mario Benedetti, da Davide Rondoni e Giuseppe Langella ad Alessandro Fo (perdonino tanti il torto della macata citazione), tutti accompagnati dalla lettura della Grisoni, che per ogni germoglio di deserto ricrea il giardino d’origine.
Raccolte in libro, le poesie sorprendono due volte. La prima perché a fine lettura, percorrendo tristezze e dolcezze, stanchezza ed esasperazione, fissità e gesti assurdi, scalini dell’aggravarsi e luci d’aiuto, ci pare di saperne di più che dopo aver incocciato una realtà vicina a casa o dopo aver letto un trattato. La seconda perché la grande, unica e variegata storia che abbiamo percorso è limpida, priva di concessioni allo spirito di sacrificio, all’autogratificazione, all’amore-terapia, all’illusione, alla retorica dell’inventare che cosa scorre dietro occhi persi. Pagina per pagina viviamo il mistero del presente di chi del presente è privato, perché ne sta perdendo o ne ha perso coscienza, e di chi dal presente è due volte soffocato, subendo quello che pare svanito della persona cara e il proprio, tenero, disperato, scrutatore, ribelle, stanco.
Chi diffida della lettura poetica o di quella del dolore sappia che è come assistere a un delicato e incalzante film. Sono luoghi e oggetti: la tavola della cena, il letto, un abito, un giornale, una panchina, stanze che perdono o ricreano un significato. Sono gesti con la loro insensatezza e il loro stupore: la bottiglia dell’olio riposta tra gli abiti nell’armadio, i colori del trucco bruciati nel forno, lo sgomento dei parenti quando, dopo i baci, il malato torna a concentrarsi soltanto sul suono della radio. Sono istantanee e fuggenti riprese del declino: la convinzione che sia sparito un braccio, il sospetto che qualcuno stia rubando le camere di casa, il figlio che mutà identità a ogni istante, la moglie creduta ambigua creatura che con le carezze aspira la memoria. Sono lacerazioni dell’animo: non ti lascerò mai in un istituto, non posso più accudirti in casa, proverò ancora, è inevitabile il ricovero, non riesco a fare quel passo.
Solo l’alta poesia può tanto: raccogliere e porgere l’imperscrutabile senza inventarlo. Alzheimer d’amore è un cammino nel profondo di tutti i coinvolti, il malato, i parenti, gli amici, i medici, fino al passante che scorge nel bar un uomo alle prese con un giornale che non legge e alza ritmico le braccia al cielo in un volo d’uccello. Il viandante torna al suo tecnologico mondo, ma segnato: “Io ho bevuto il caffè / i sigari dal fumo acre li ho comprati. / Uscendo e puntando all’auto / il comando elettronico che l’apre / ho avuto paura di non vederli più / quell’uomo, il suo giornale / il male segreto e la chiara / premura di quella mano / come d’angelo dipinto / in un’annunciazione medievale” (Davide Rondoni). O fino all’altro che, fermo alla pensilina dei mezzi pubblici, vede passare “nella sua veste cinerina / come tuta d’amianto / l’angelo del pianto / la suora che da noi in Bovisasca / corre dovunque sappia / d’un’anima ferita” (Giuseppe Langella). E la fede, dove c’è e parla ai protagonisti, non è il rifugio, non è Altrui forza, non il nascondiglio o l’alibi della resa.
In queste presenze colte in dialetto, in rima, in musicalità sciolta o ossessiva, in bruschi ma nitidi salti nel tempo (dal chiarore della famiglia al buio d’una diversa presenza) scorre una narrazione rara in un’antologia. Non è il tema a unificare, è la coralità che sale dal mondo ignoto. E le pagine di Franca Grisoni indirizzano la nostra vela tra le onde di ogni “quadro” dell’opera intera, con la grazia di far sapere a chi considera la poesia un mondo oscuro e difficile quanto essa sia invece il filo più genuino tra l’inesprimibile e la sua voce.